Ebrei e massoni, l’altra faccia
del Risorgimento.
Prima
di parlare di Mussolini e dell’Italia fascista, sarà opportuno liquidare un
certo numero di luoghi di comuni sul Risorgimento e l’Italia liberale. Premesso
che non è questa la sede per analizzare in modo approfondito un tema tanto
vasto, indicheremo tre punti fondamentali che intendiamo esplorare: il ruolo di
esecutore che gli “Illuminati” hanno assegnato a Cavour e al Venerabile Maestro
Garibaldi; la nascita della massoneria in Italia; la figura, tuttora
sconosciuta al grande pubblico, del Gran Maestro della Massoneria Universale
Adriano Lemmi.
Nel
tracciare un’immagine assolutamente fuori dagli schemi di Cavour, ci rifaremo
allo studio di Carmine De Marco Revisione
della Storia dell’Unità d’Italia 1 soffermandoci solo sui punti
di maggior interesse per il nostro studio che possono essere riassunti in
questa tesi:
<< Nel corso di
queste pagine noteremo (fatto pochissimo rilevato dagli storici delle vicende
dell’unità italiana e, in ogni caso, non evidenziato) la comunanza di interessi
tra ambienti finanziari protestanti e ambienti finanziari ebraici e noteremo
anche la frequentazione del Cavour di quegli ambienti e del suo coinvolgimento,
personale e da statista, in quegli interessi. Una lettura delle vicende di
quegli anni in chiave anticattolica, o, per meglio dire, ostile agli ambienti
politici e finanziari legati al cattolicesimo, è da preferire alla stantia
storia dell’epopea risorgimentale e delle ragioni della nascita dello Stato
unitario italiano >> 1 .
Questo
scontro tra gruppi finanziari antagonisti si ripeterà ancora nel corso degli
anni Venti del Novecento, quando Mussolini edificherà il Regime: lo vedremo più
avanti. Per il momento professiamo un’intenzione: denunciare la malafede con la
quale si è tentato di fare del dittatore romagnolo un comodo capo espiatorio
per colpe che invece sono ataviche nella storia di questo Paese. La presente
analisi del contesto, delle motivazioni e dei metodi con i quali si è unificata
l’Italia ci permette appunto scoprire che Mussolini nel 1922 assunse il governo
di una nazione ben diversa da quella che ci è stata raccontata. Seguendo questo
percorso di conoscenza affermiamo che certe azioni delittuose, messe in atto
dai “poteri forti” contro milioni di italiani, possono essere rintracciate con
continuità in tutta la storia italiana, prima e dopo il ventennio mussoliniano
e anche oggi. A patto però di non cedere alla comoda ricostruzione di un Paese
della fantasia, quale quella che ci hanno consegnato il mondo accademico,
l’editoria, la televisione. La strategia del silenzio e della mistificazione,
messa in atto da una classe intellettuale complice, ha finora impedito alla
maggioranza degli italiani di comprendere fino a che punto certi giochi si
ripetano ciclicamente. Noi tenteremo quindi di identificare questi poteri e di
smascherare le azioni criminali iniziando con lo smantellare l’epopea
risorgimentale.
Iniziamo
col dire che per ben dieci anni, tra il 1834 e il 1843, il giovane Camillo
Benso Conte di Cavour conduce una vita dissoluta spostandosi continuamente tra
Ginevra, Parigi e Londra. Durante questi viaggi egli entra in contatto con
ambienti finanziari ebraici e protestanti contigui alla massoneria. Ebbe così
modo di conoscere personalmente due dei più potenti banchieri al mondo: James Rothschild
a Parigi e Odier a Ginevra. Col loro aiuto finanziario Cavour, prima di darsi
alla politica, si dedica all’imprenditoria collezionando però una sequenza
impressionante di fallimenti. La prima considerazione la lasciamo tirare
all’eccellente De Marco: << In
tutti libri da me consultati non ho mai trovato la spiegazione dell’origine dei
capitali che Cavour investiva e distruggeva. Salvo alcuni accenni ai banchieri
genovesi De La Rüe ed ai banchieri ginevrini de La Rive che finanziarono
parzialmente alcune imprese, il resto è mistero >> 2 . La
seconda considerazione proviamo a tirarla noi: il Cavour dedito alla bella vita,
al gioco d’azzardo, alla speculazione in borsa e a fallimentari attività
imprenditoriali descritto da De Marco è un soggetto in possesso di quelle
debolezze caratteriali che lo rendono perfetto per essere arruolato come
“personale straniero di rinforzo” 3 da parte di servizi segreti e
società segrete stranieri.
Nota
De Marco: << cosa sia successo nel
1850 perché da sfaccendato e dilapidatore di sostanze paterne si sia
trasformato in uomo politico, non si capisce. È logico supporre che nei suoi
viaggi in Inghilterra ed in Francia Cavour sia venuto a contatto con ambienti
della grande finanza internazionale, interessati a far conquistare nuovi
mercati ai prodotti delle industrie da loro finanziate o interessati
all’impiego dei loro capitali. In quegli anni gli Stati italiani erano
rigidamente protezionisti e non favorivano l’importazione di prodotti
dall’estero. Il primo Stato italiano ad abbattere le barriere doganali fu il
Piemonte per l’opera del Cavour: prima ministro dell’agricoltura, poi delle
finanze, infine primo ministro. La grande finanza internazionale, che
condizionava tutti i governi, ebbe interesse allora a far appoggiare le mire
espansionistiche del Piemonte, oberato di debiti interni per le precedenti
sconfitte nelle guerre di conquista e per l’attuazione della politica doganale
liberistica. Nel 1857 il saldo passivo tra importazioni ed esportazioni aveva
raggiunto i 100 milioni di lire. Era un calcolo di convenienza reciproca. Da un
lato il capitale dei finanzieri francesi ed inglesi veniva remunerato per i
prestiti, garantiti dall’appoggio dei loro governi alla politica
espansionistica del Piemonte e per i consumi dei loro prodotti. Dall’altro lato
il Piemonte attuava una politica di investimenti interni e di conquiste
territoriali. In fondo conveniva alle due parti. Gli unici a non essere
d’accordo erano i cittadini piemontesi che pagarono in tasse ed in vite umane
quella politica: ma questo aspetto del problema non interessava assolutamente i
finanzieri, Cavour e Vittorio Emanuele >> 4 .
Gli
ambiziosi programmi di Cavour, in effetti, necessitavano di ingenti capitali: << il ricorso al credito estero per
far fronte alle spese del programma ferroviario avvenne con un prestito
concluso con la banca Hambro di Londra che fruttò al netto quasi 80 milioni
>> 5. Da notare che secondo lo storico della massoneria
Enrico Nassi il gruppo inglese degli Hambro era una fucina di Venerabili “33”,
proprio come i già citati Rothschild 6 .
Aggiunge
De Marco: << L’aumento della
pressione tributaria non bastò a coprire l’aumento notevolissimo della spesa
pubblica negli anni successivi, sicché il bilancio piemontese rimase
costantemente in deficit e furono necessari nuovi ricorsi al credito. Forti
difficoltà trovò Cavour nella politica bancaria. Non riuscì infatti nel luglio
1851 a fare approvare dalla Camera il suo progetto di rafforzamento della Banca
Nazionale. Ma il progetto, che in sostanza attribuiva alla Banca il monopolio
dell’emissione di biglietti a corso legale, fu respinto. Alcuni lo giudicarono
troppo ardito; altri lo giudicarono non rispondente ai princìpi liberisti tanto
calorosamente sostenuti dallo stesso Cavour >> 7 . Sarebbe
interessante sapere chi stampava all’epoca la carta moneta del Regno Sabaudo…
Malgrado
Cavour avesse dichiarato che la riforma della finanza pubblica era una priorità
assoluta, i risultati della sua opera possono essere così sintetizzati: << Alla fine del 1853 i prestiti
esteri avevano reso un prodotto netto di oltre 304 milioni. Al primo gennaio
1859 il debito pubblico piemontese ascendeva ad oltre 786 milioni! >>
8 . Possiamo già affermare che il senso recondito dell’azione
politica del “grande statista” fosse di schiavizzare l’intero popolo italiano
ai magnati della finanza internazionale mediante il debito pubblico, come
vedremo meglio in seguito. Nel 1854 la situazione del debito pubblico era già
fuori controllo, al punto che persino il fedelissimo banchiere Hambro
pretendeva un controvalore in cambio di nuovi finanziamenti: Cavour si rivolse
allora all’altro “amico”, il Rothschild, che erogò un nuovo prestito per 35
milioni. Quello che De Marco sembra non cogliere, parlando di un Cavour offeso
che rompe con il banchiere Hambro, è il fatto che i Rothschild – altra storica
culla di venerabili “33” – fossero consociati a Londra proprio con il gruppo
Hambro, come ci informa Nassi: ciò farebbe pensare a un sottile gioco delle
parti per estorcere tassi di interesse ancora più pesanti al Regno Sabaudo.
Un’altra
tremenda mazzata alle finanze fu la partecipazione alla guerra di Crimea, grazie
alla quale il Regno Sabaudo poté sedersi al tavolo della pace con le grandi
potenze – Francia, Gran Bretagna e Russia – ed esporre il problema dell’unità
d’Italia. A quel tempo fece scalpore una lapidaria sentenza: << Quindici mila fra di voi - scriveva
Mazzini in un appello ai soldati che stavano per partire per la Crimea e in una
lettera aperta al Cavour - stanno per essere deportati in Crimea. Non uno forse
tra voi rivedrà la propria famiglia. Per servire un falso disegno straniero, le
ossa vostre biancheggeranno calpestate dal cavallo del cosacco >> 9
. L’aspetto più curioso della vicenda non risiede certo nel ben noto
presenzialismo che sempre ha afflitto la politica estera italiana, quanto
piuttosto al modo in cui maturò la decisione dell’intervento militare. Il
governo inglese infatti si era limitato a chiedere al Regno del Piemonte un
contingente di 10.000 soldati da schierare in Crimea sotto il proprio comando e
a proprie spese. << Il Piemonte,
orgogliosamente, non accettò che i suoi soldati fossero pagati come mercenari,
voleva fornirli da alleato. Unico problema: non aveva come mantenerli, quindi
chiese in prestito i soldi. Solo che, invece di chiedere in prestito la somma
che occorreva a mantenere i soldati, 600 mila sterline, cioè 15 milioni di
lire, ne chiedeva due milioni, cioè 50 milioni di lire >> 10 al
tasso di interesse del 4% annuo. Il governo di Sua Maestà dovette farsi
garante, di malavoglia, dei prestiti usurai concessi dall’oligarchia
finanziaria degli “Illuminati”. Mentre questi fatti vengono tuttora taciuti per
pudore dai nostri intellettuali sui giornali e sui libri, i contemporanei
ebbero invece chiara consapevolezza della realtà delle cose: << Il giornale Armonia (19, 20, 30
gennaio 1855) sostenne che l’alleanza fosse avvenuta a condizioni "non
troppo onorevoli", che da essa vi erano da attendersi solo
"umiliazione, guerra e debiti", e che alla sua origine v’era la
disperata situazione finanziaria, la quale soltanto aveva indotto Cavour a
"vendere" 15 mila soldati piemontesi per "un imprestito di 25
milioni" >> 11 . Malgrado 2.000 caduti, per una serie
di ragioni, che De Marco illustra molto bene nel suo saggio, il Regno Sabaudo
non otterrà nessun vantaggio al tavolo della pace: l’intera guerra, dunque, fu
promossa con l’unico obbiettivo di accrescere l’indebitamento del regno nei
confronti dell’oligarchia finanziaria internazionale. Ancora una volta, dunque,
il conte di Cavour agiva come un semplice esecutore degli ordini degli
“Illuminati”.
La
Seconda guerra d’indipendenza è un esempio ancora più smaccato di questa
teoria. Essa fu decisa a tavolino da Napoleone III e da Cavour durante
l’incontro di Plumbièrs. Così De Marco commenta il resoconto ufficiale di
quell’incontro: << La guerra all’Austria andava fatta per
consentire al Piemonte, con i nuovi acquisti territoriali, di poter ripagare
l’enorme debito accumulato anche con le sue guerre precedenti. In pratica i
creditori dovevano finanziare ancora una volta il Piemonte per poter riprendere
i vecchi ed i nuovi prestiti. Dall’altro lato Napoleone III facendosi garante
della riuscita della guerra, guadagnava Nizza e la Savoia, scaricando il costo
della guerra sul Piemonte: tipico caso di usura! Per Cavour non aveva
importanza, un debito in più uno in meno >> 12 .
Per
le ragioni sopra esposte il 20 novembre 1855 re Vittorio Emanuele II e il conte
di Cavour partono alla volta di Parigi: <<
gli incontri più importanti Cavour li ebbe con Rothschild e con Isaac Péreire,
i due massimi esponenti del mondo finanziario francese. Péreire gli parve
"un homme étonnement habile" "un uomo straordinariamente
abile" dotato di "plus d’esprit que tous les banquiers de Paris
réunis" "più immaginazione di tutti i banchieri di Parigi". Con
i ministri Magne e Rouher e con i finanzieri interessati, che, in aggiunta al
Laffitte, presidente della società ferroviaria Vittorio Emanuele, includevano i
ricordati Rothschild e Péreire e altri ancora, preparò l’accordo poi sanzionato
il 7 dicembre in vista della fusione della Vittorio Emanuele con altre iniziative
ferroviarie francesi […] in tal modo 200 milioni, raccolti sui mercati
finanziari stranieri, avrebbero fecondato l’economia del paese […] Sempre negli
incontri avvenuti a Parigi, Cavour, spinto da Bolmida, presidente della Cassa
di Commercio e corrispondente torinese di Rothschild, concluse con questi un
accordo per la creazione di una grande banca mobiliare e Rothschild si
dichiarava disposto a sostenere una impresa che doveva diventare "une
affaire Italienne", atta a estendere l’influenza del Piemonte in tutta la
penisola italiana >> 13 . Ecco quindi provati i contatti diretti di Cavour con gli
“Illuminati” ed ecco spiegato chiaramente il loro disegno: “fatta l’Italia,
bisogna fare gli italiani” – celebre motto erroneamente attribuito a Massimo
d’Azelio – significherebbe perciò vendere il popolo d’Italiano al potere
usuraio della finanza sionista e ridurlo, mediante un debito
inestinguibile, nella triste condizione di
una massa di schiavi. Date, nomi e fatti sono qui chiaramente esposti: se
qualcuno ha qualcosa da obbiettare li contesti pure, ma – per favore – non si
tiri in ballo la solita accusa di antisemitismo per tacitare discorsi scomodi.
E’ anche giusto, a nostro avviso, che la gente comune venga informata di queste
cose: l’ignoranza, infatti, non paga mai.
Attraverso
la narrazione di De Marco citiamo altre prove a sostegno della nostra ipotesi:
<< Si deve aggiungere che tra i due
abili personaggi, Cavour e Rothschild, l’abile era solo quest’ultimo. Infatti
Rothschild subito ebbe esitazioni e perplessità: alcune delle iniziative
proposte non parevano al grande banchiere sufficientemente importanti né
sufficientemente redditizie per ciò si posero gravi problemi per la
sottoscrizione dell’aumento di capitale riservato a Rothschild. Cavour fu
costretto a far collocare il capitale non sottoscritto oltre che sul mercato
italiano anche a Bruxelles, Amsterdam e Ginevra, provocando un sensibile
ribasso del titolo della Cassa di Commercio. Non migliori risultati ebbero
altre iniziative bancarie promosse da Cavour, come quella del Credito Profumo
che visse tra difficoltà e fu sciolto nel 1861 […] Uno dei risultati del
viaggio a Parigi fu la conclusione con Rothschild e con la Cassa di Commercio e
Industria di Torino del prestito di 40 milioni autorizzato con la legge del 26
giugno 1858. Rothschild e la Cassa avevano assunto ciascuno metà
dell’operazione, ma la Cassa fungeva da intermediaria con altri istituti
torinesi e genovesi, e di fatto l’affare fu accentrato nelle mani di
Rothschild. Questo prestito doveva dare a Cavour una relativa tranquillità e
consentirgli la sua azione diplomatica di provocazione dell’Austria >> 14
Mentre
Cavour briga con Napoleone III e Vittorio Emanuele II per arrivare a un
conflitto armato con l’Impero asburgico un testimone d’eccezione, il Massari,
riferisce in data 25 dicembre 1858 la smania di Rothschild per avere
indiscrezioni da Cesare Beretta sul contenuto del discorso della Corona.
Vittorio Emanuele II avrebbe scelto parole tali da provocare una crisi
diplomatica con Vienna? Gli speculatori attendevano ansiosi e il più ansioso
tra loro era James Rothschild perché era particolarmente esposto in tutta la
vicenda. Perciò il 9 gennaio successivo Cavour confida al Massari la
preoccupazione, all’interno del Consiglio dei Ministri, per il tono minaccioso
del discorso del re: si teme una reazione negativa alla Borsa di Parigi. Già in
data 11 gennaio 1859 Massari annota le nuove preoccupazioni di Cavour: << mi dice: "Sarà più facile
trovar danari dopo aver fatta toccare una sconfitta agli austriaci che
prima". Sir James stamane mi mostra una lettera di John Samuel nella quale
è detto che a Londra "all Jews believe in war", "tutti gli Ebrei
sperano nella guerra" >> 15 .
Il
17 gennaio 1859 il principe Napoleone, figlio di Napoleone III, arrivava a
Torino per sottoscrivere assieme a Vittorio Emanuele II una serie di accordi: << il trattato prevedeva l’impegno
della Francia ad aiutare il Piemonte nel caso che fosse attaccato dall’Austria;
la costituzione alla fine della guerra di un regno dell’Alta Italia, con
possibilità di annettere i territori delle Legazioni; la cessione alla Francia
della Savoia (la sorte della contea di Nizza era rinviata ad una successiva
occasione). Al trattato erano annesse due convenzioni, una militare e una
finanziaria. La prima stabiliva che le forze alleate da impegnare in Italia
sarebbero state di circa 300 mila uomini, 200 mila francesi e 100 mila sardi;
che il comando supremo sarebbe spettato all’imperatore. La seconda stabiliva
che le spese di guerra sarebbero state rimborsate alla Francia dal regno
dell’Alta Italia per mezzo di annualità corrispondenti a un decimo delle
entrate annue del regno stesso >> 16 . Quest’ultimo
aspetto, di natura finanziaria, sarà fondamentale per chiarire il successivo
svolgersi degli avvenimenti.
Lasciando
da parte il mistero, tuttora irrisolto, del motivo per cui l’Impero Asburgico
si lasciò attirare nella Seconda guerra d’indipendenza, vediamo invece quale fu
l’esito di quello stranissimo conflitto. Scrive De Marco:
<< Napoleone nel
bel mezzo della guerra all’Austria si fermò. Invece di marciare su Vienna,
firmò l’armistizio di Villafranca con l’imperatore d’Austria, senza consultare
né Cavour né Vittorio Emanuele. Ai piemontesi non rimase altro che accettare la
situazione, non prima, però, di rinegoziare con Napoleone III il costo della
guerra. Napoleone, che non era stato ai patti, poiché si era accordato
direttamente con l’Austria, invece di addebitare l’intero costo della guerra,
circa 360 milioni, chiese al Piemonte di pagare solo 60 milioni. I documenti
non chiariscono fino in fondo lo strano comportamento di Napoleone III. È
indubbio che delle forti, fortissime, pressioni esterne fermarono Napoleone,
che credeva di avere Francesco Giuseppe in pugno, e obbligarono l’imperatore
austriaco ad accettare le trattative di pace con le forze militari ancora
integre. Tra queste pressioni, ci furono quelle di natura politica e militare
da parte della Prussia, dell’Inghilterra e della Russia. Ma non furono le sole
e le principali; bisogna tenere conto, dal punto di vista austriaco, anche
della rivolta ungherese, delle divisioni tra i militari, tra i politici e tra i
diplomatici, della situazione economica e finanziaria e, principalmente, degli
interessi a questa legati >> 16
.
De
Marco a questo punto nota l’enigmatica presenza di Alessandro Bixio, fratello
del più noto Nino, e la collera mostrata nei suoi riguardi dal principe
Girolamo Bonaparte, che fino a quel momento era stato suo amico. La faccenda si
fa assai intrigante quando teniamo conto che Bixio era un uomo d’affari legato
ai banchieri ebrei Rothschild e Péreire. Cavour lo conobbe personalmente
durante un viaggio a Parigi nel 1852. Qui il nostro “statista” ebbe il
privilegio di osservare con i suoi occhi la singolare rievocazione del miracolo
dei pani e dei pesci messo in atto dagli “Illuminati” all’indomani del colpo di
stato di Napoleone III: << I capitali sorgono da tutte le parti. La prosperità
finanziaria è immensa >> scrisse Cavour, che a Parigi fu folgorato come San
Paolo sulla via di Damasco. Fu Alessandro Bixio l’intermediario << che fece da tramite tra Cavour e
gli ambienti bancari ebraici. In quei colloqui nacquero tutte le iniziative
industriali, in particolare ferroviarie, come la Vittorio Emanuele, bancarie e
finanziarie che caratterizzeranno i successivi sette anni del ministero Cavour,
fino alla guerra con l’Austria >> 17 .
Ecco
quindi come De Marco spiega il ruolo interpretato da Alessandro Bixio al
termine della guerra: << gli
interessi rappresentati dal Bixio vinsero su quelli militari e dinastici dei
napoleonidi! Ecco alla conclusione dei progetti discussi a Parigi nel 1852 il
controllore: la presenza di Alessandro Bixio. Gli effetti della sua presenza si
videro subito >> 18 , intendendo con ciò l’armistizio
sottoscritto a Villafranca tra Napoleone III e Francesco Giuseppe. Questo basta
e avanza a spiegare il motivo della collera del principe Girolamo Napoleone nei
riguardi di Bixio.
A
questo punto l’attenzione di Carmine De Marco si sposta sulla situazione
interna dell’Impero Asburgico: <<
La situazione finanziaria dell’impero austriaco, prima e durante la guerra con
il Piemonte, dava origine alle più serie preoccupazioni. Il riflusso
dall’estero di titoli austriaci, in corso dai primi del 1859, aveva accentuato
il drenaggio delle risorse valutarie della Nationalbank che aveva dovuto
sospendere i pagamenti in contanti, mentre l’aggio sull’argento saliva in
maggio al 40 per cento e il corso dei titoli di Stato austriaci crollava a
Francoforte da 81 fiorini in gennaio a 38 in aprile. Tutta l’economia del paese
veniva dunque investita da gravi tensioni inflazionistiche, mentre la capacità
di importazione risultava drasticamente ridotta, ed il ministro delle finanze
Bruck doveva mettere mano alle riserve metalliche della Nationalbank, con grave
danno del credito al paese, per procurare all’esercito le forniture necessarie.
Già per queste ragioni era chiaro che lo sforzo bellico non avrebbe potuto
protrarsi più a lungo >> 19 .
Le
informazioni fornite da De Marco sull’attacco speculativo scatenato dalla
finanza internazionale contro l’Impero asburgico si sposano perfettamente col
quadro esposto nel capitolo precedente a proposito dell’opera di infiltrazione
ad altissimo attuata dagli “Illuminati” per mezzo dei seguaci di sir
Bowler-Lyton: << gli inglesi
reclutarono, richiamandosi a un passato (spesso inventato) di comunanze
nordiche e ideali paganeggianti, diversi esponenti dei Servizi, della
diplomazia e dell’establishment austriaco […] Lo scopo, in principio, fu
meramente economico e consistette, in buona sostanza, nell’aggiogamento delle
borse valori e merci di Vienna >> 20 .
Lasciamo
all’eccellente De Marco un primo tentativo di conclusione: << Quattro giorni dopo l’armistizio [!], il 15 luglio 1859,
durante il primo consiglio dei ministri dopo la sconfitta militare,
l’imperatore Francesco Giuseppe rendeva pubblico il famoso Manifesto di
Laxenburg col quale si affrettava a promettere alla borghesia un sostanziale
mutamento di rotta […] Di lì a poco il Regolamento industriale austriaco
abrogava il regime delle corporazioni, introduceva la libertà del lavoro, dava
l’avvio alla prima rivoluzione industriale dell’Austria. Gli ebrei di Vienna ed
i protestanti di Germania ringraziarono. Quattro giorni dopo la battaglia di
Solferino, la borsa austriaca ebbe un rialzo! In novembre l’imperatore
Francesco Giuseppe approvò la proposta di abolire molte restrizioni residue
imposte alle comunità ebraiche dell’impero. Istituì, prima della fine dell’anno
il Comitato per il debito di Stato […] poiché concordava con il ministro delle
finanze Bruck sulla necessità di rassicurare gli investitori stranieri.
Considerazioni: Insomma, vendendo e ricomprando i titoli del debito pubblico
austriaco, la grande finanza internazionale faceva la guerra e la pace! Per
amore o per forza i grandi mercati si dovevano aprire ai grandi capitali. Che
questo fosse il principale scopo nella guerra fatta da Napoleone (o fatta fare
a Napoleone) all’Austria, è dimostrato dall’armistizio di Villafranca, senza
giustificazioni militari da parte della Francia e dal manifesto di Laxenburg
>> 21 .
La
seconda conclusione tenteremo di formularla in autonomia, confrontando la
seconda guerra d’indipendenza con la terza (1866).
Quest’ultimo,
disastroso conflitto – così come ci viene descritto nella tradizionale
ricostruzione di Arrigo Petacco 22 – si presentano parecchi punti
interrogativi. Il primo: l’esercito sabaudo, ancora in gran parte integro
malgrado la sconfitta di Custoza, si ritira senza opporre alcuna resistenza di
fronte alla tumultuosa avanzata dell’esercito asburgico. Fu così che una
sconfitta non irreparabile sul piano tattico – 5 delle 6 divisioni di Vittorio
Emanuele II erano state battute, su un totale di 20 divisioni mobilitate – si
trasformò in una sconfitta strategica di dimensioni inaudite: una ritirata
strategica generale, che lasciava l’intera Pianura Padana alla mercé
dell’invasore straniero. Scrive Petacco: <<
Vittorio Emanuele era ancora convinto che la battaglia non fosse perduta, così
come l’arciduca Alberto (il comandante nemico) era convinto di non averla
ancora vinta. Disgraziatamente, a non essere convinto, era il generale La
Marmora il quale, spento, avvilito, con la mente confusa, si considerava
sconfitto prima ancora di esserlo. Infatti, la guerra fu effettivamente perduta
soltanto il 1° luglio quando l’arciduca Alberto, dopo avere attraversato il
Mincio ed essersi spinto a cavallo fino al basso Oglio senza incontrare
resistenza, si persuase di essere lui il vincitore. Nel frattempo La Marmora
aveva diramato l’ordine di ripiegare dietro il fiume Oglio ed era costata
fatica ai suoi subalterni convincerlo a fermarsi lì. Lui voleva addirittura
ritirarsi dietro l’Adda. Così, dopo poco più di ventiquattro ore, finiva una
guerra che era costata più sangue ai vincitori che ai vinti: 5.150 fra morti e
feriti tra gli austriaci, 3.281 agli italiani >> 23 .
Il
secondo punto interrogativo: il Regio Esercito non aveva un comandante in capo
né qualcosa che potesse essere lontanamente paragonato a una catena di comando.
E’ un fatto assolutamente anomalo anche agli occhi di un profano di cose
militari come il sottoscritto. Di fatto il generale La Marmora si dimise dalla
carica di Ministro della Guerra per assumere il comando in capo dell’esercito.
Tale speranza venne però frustrata da Vittorio Emanuele, il quale non solo non
rinunciò al comando nominale dell’esercito ma addirittura volle essere presente
sul campo di battaglia. La Marmora, masticando amaro, dovette accontentarsi
della carica di Capo di Stato Maggiore alla quale ambiva anche il generale
Cialdini. Quest’ultimo fu messo al comando di 8 schierate a Sud del Po e gli
furono lasciati ampi poteri decisionali. Di fatto a Custoza La Marmora
trattenne presso di sé 6 divisioni del Regio Esercito lasciando cinicamente che
altrettante divisioni agli ordini di Vittorio Emanuele II fossero fatte a pezzi
dall’esercito asburgico. All’indomani della sconfitta al re, che gli chiedeva
conto della sua condotta, La Marmora rispose in modo criptico: << Vostra Maestà ha giusto il dire, ma
bisognerebbe sapere il tutto >> 24 . Lo stesso Petacco a
questo punto scrive: << Quale fosse
il << tutto >> , però, non lo spiegò >> 25 .
Forse bisognerebbe rivolgere la domanda al signor Rothschild: lui,
evidentemente, conosceva “il tutto” se vogliamo dar credito alla lettera
dall’ambasciatore francese a Londra, Charles-Maurice de Talleyrand, nel 1830, e
nella quale si trova chiaramente descritta la strategia della finanza sionista.
Afferma l’ambasciatore: << i
Rothschild non si fanno scrupoli, combattono senza mezze misure chi minaccia di
intaccare il loro potere e non si lasciano fermare nemmeno dalle guerre, anzi.
La loro capacità sono tali che riescono a essere al contempo i banchieri di
Cavour e di Metternich e la loro spregiudicatezza è pari alla loro abilità
>> 26 . Vi era poi il generale Cialdini, rivale di La
Marmora: vistosi rifiutato l’incarico di Capo di Stato Maggiore, egli aveva
tuttavia ottenuto il comando di 8 delle 20 divisioni dell’esercito, schierate
sul basso Po, e ampia autonomia decisionale. Di fatto come La Marmora a Custoza
aveva abbandonato alla sconfitta Vittorio Emanuele, così Cialdini attese con le
mani in mano la sconfitta di re Vittorio Emanuele II e la ritirata di La
Marmora malgrado con la poderosa massa di 8 divisioni dovesse fronteggiare
forze nemiche ridicole. Appena seppe della sconfitta del re a Custoza e
dell’imbelle ritirata del generale La Marmora – che di lì a poco si sarebbe
dimesso – Govoni disobbedì all’ordine del sovrano di attraversare il Po e,
inspiegabilmente, si ritirò a Modena con tutte le sue forze. Non prima,
tuttavia, di aver scaricato tutte le responsabilità del disastro su La Marmora
e di aver cercato l’autorizzazione dal ministro della Guerra Ignazio De Genova
di Pettenago – il quale, da Firenze, se ne lavò le mani come Ponzio Pilato
rispondendo: << a queste cose
dovreste pensarci voi generali >> 27 . Infine c’erano
Garibaldi e i suoi volontari, che però non erano inquadrati nell’esercito
sabaudo, nel Trentino Alto Adige.
Il
terzo elemento anomalo: la Regia Marina gettò la spugna non dopo la sconfitta
subita a Lissa, ma addirittura ancor prima che si combattesse. L’ammiraglio Carlo Pellion conte di Persano,
comandante dell’Armata Navale, aveva tergiversato, cercando di evitare in tutti
i modi di combattere anche in presenza di espliciti ordini del governo. Solo
quando il ministro De Pretis, nel corso di un incontro personale, minacciò di
sbarcarlo Persano si decise all’azione. I due comandanti in subordine erano gli
ammiragli Vacca e Albini: il primo, scontento per essere stato scavalcato – a
suo dire – proprio da Persano nel comando; l’altro perché gli era stato
assegnato il comando delle navi più antiquate. Mal consigliato Vacca, Persano
improvvisò un’operazione anfibia contro l’isola fortificata di Lissa che sfociò
in una sconfitta clamorosa. Al comando della forza navale da sbarco vi era
Albini, che si era già mostrato contrario al piano: infatti non tentò neppure
lo sbarco, disobbedendo agli ordini. Una volta comparsa sulla scena la flotta
austriaca, la situazione per Persano precipitò. Infatti Albini e Vacca, << rivelatisi renitenti ai suoi
ripetuti ordini di intervenire nella battaglia >> 28 ,
lasciarono Persano e la sua squadra navale da sole a sostenere l’intero peso
della battaglia. Malgrado le dure perdite, la superiorità numerica e qualitativa
della Regia Marina restava così netta da rendere ancora possibile la vittoria.
Ma Persano << come La Marmora di
Custoza, si sentiva sconfitto prima di avere portato a termine la sconfitta
>> 29 . Probabilmente l’ammiraglio Persano non avrebbe mai
potuto immaginare il contenuto di una << sconsolata lettera che l’ammiraglio
asburgico Wilhelm von Tegetthoff scrisse a Emma Litteroth il 26 luglio 1866,
ovvero meno di una settimana dopo quell’azione, mediante la quale spiegava,
tanto per incominciare, che il rapporto di forze tra gli italiani e gli
austriaci non era stato modificato dallo scontro. Pertanto la squadra di Pola
resta in condizioni di inferiorità e, di conseguenza, il blocco italiano di
Venezia continuava come prima […] Il preteso mancato sfruttamento del successo
subito rimproveratogli, di conseguenza, non era, per il comandante della flotta
austriaca, che il frutto di fantasie di << quell’accolita di scribacchini
farisei, i quali legiferano a Vienna, seduti dietro a una stufa, in materia
navale >> 30 .
In
conclusione tanto a Custoza quanto a Lissa due episodi negativi, ma non
decisivi, si tramutarono in sconfitte strategiche di vaste proporzioni e in
dure umiliazioni solo a causa della mancata volontà di generali e ammiragli di
combattere. Abbiamo ancora una volta la sensazione che altri interessi, diversi
da quelli militari e politici, fossero in gioco: proprio come ipotizza De Marco
in occasione della Seconda guerra d’indipendenza.
Alla
fine manovre più diplomatiche che militari portarono all’annessione del Veneto:
ceduto da Francesco Giuseppe a Napoleone III e da questi a Vittorio Emanuele II
dopo un plebiscito farsa. Poiché il governo austriaco si era già rassegnato – già
prima dell’inizio delle ostilità – a una simile soluzione, che però il governo
italiano non aveva accettato, la Terza guerra d’indipendenza fu una guerra
inutile sia per i piani dei Savoia sia per i destini dei popoli d’Italia. Essa
non fu, tuttavia, senza conseguenze sotto altri punti di vista. Il governo
italiano si era fortemente indebitato per preparare la guerra nella speranza
che il nemico vinto avrebbe poi pagato pesanti indennità ai vincitori – come
era già capitato al Regno del Piemonte, sconfitto, al termine della Prima
guerra d’indipendenza. Quei debiti contratti con gli esponenti del mondo
finanziario, su tutti i Rothschild e gli Hambro, andavano ora onorati: << L’Italia intera, quell’Italia
contadina che raccoglieva la stragrande maggioranza della popolazione, ora
stava tutta piangendo a dirotto dovendo pagare il conto delle costose spese
militari sostenute per realizzare quel Risorgimento al quale era rimasta del
tutto indifferente […] Cambray-Digny si era rivelato un così valido
amministratore delle finanze della Real Casa che Vittorio Emanuele lo aveva
imposto come ministro delle Finanze affinché risanasse anche le casse dello
Stato […] Non potendo tassare i grandi patrimoni e le sinecure dei ceti
privilegiati […] aveva alienato tutti i beni ecclesiastici ancora vendibili
fino a quando non era intervenuto il Parlamento per fermarlo […] Ostinato
comunque nel suo intento di raggiungere il pareggio del bilancio, raccolse
altro denaro appaltando il monopolio dei tabacchi, come era già stato fatto per
le ferrovie, a una società privata […] Nell’affare dei tabacchi, come era
accaduto per l’alienazione dei beni ecclesiastici, oltre le banche straniere
erano entrati in gioco anche i primi capitalisti italiani, fra i quali emergeva
il livornese Pietro Bastogi, che già si era assicurato l’appalto delle ferrovie
meridionali corrompendo deputati e giornalisti. Ma l’auspicato pareggio era
ancora lontano e da vendere non c’era più nulla […] Il fantasioso ministro
fiorentino […] non esitò infatti a sfidare l’impopolarità aumentando ancora le
vecchie tasse e inventandone addirittura di nuove. Oltre all’imposta sulla
successione […] quella sulle finestre […] ma il colpo di mano più odioso di
Cambray-Digny fu il ripristino della << tassa sul macinato >> […]
Contro questo << Governo non atto ad altro che a far l’esattore delle
tasse >> come scrisse in quei giorni Garibaldi […] si scatenò la rabbia
dei contadini che si sentivano provocati da quell’implacabile contatore posto
davanti ai loro occhi che li obbligava a pagare in anticipo il misero frutto
del loro sudore. Anche i mugnai, trasformatisi in forzati esattori, si unirono
alla protesta che esplose dovunque […] La repressione, naturalmente, fu
durissima. Il governo non esitò a proclamare i consueti stati d’assedio e affidò
i pieni poteri al generale Cadorna il quale, per domare i rivoltosi di Parma,
Reggio, Modena e Ravenna, non esitò a far scendere in campo l’esercito con il
tragico risultato che rimasero sul terreno 250 dimostranti morti e un migliaio
di feriti >> 31 .
Torniamo
ora indietro all’ 8 ottobre 1859, quando a Torino, con la benedizione del
“fratello in spirito” Cavour – rimasto scottato dalla recentissima Seconda
guerra d’indipendenza, di cui si è detto – viene fondata la Loggia Ausonia:
nasce così la massoneria contemporanea. Essa si ramifica rapidamente su tutta
la penisola assorbendo precedenti società occulte o paramassoniche già
esistenti e presenti spesso da lunga data. Appena costituita la massoneria
italiana si pone sotto l’obbedienza del Grande Oriente di Francia. Secondo la
descrizione che ne fa lo storico della massoneria Enrico Nassi << i motivi sono essenzialmente tre:
1.
quella francese è la massoneria più
laica e compatta d’Europa. Teorizza la caduta del potere temporale dei papa […]
Lo stesso Cavour, con linguaggio rituale, considera la Franc-maconnerie una
<< pietra angolare >> della sua strategia diplomatica. Non a caso
il suo ambasciatore a Parigi è Costantino Nigra, un maestro elevato alla
dignità del 33° grado del Rito adottato dai francesi;
2.
più di quella inglese, la comunione
francese ha una consolidata tradizione di dinamiche interferenze col modo
profano della politica, delle armi e della finanza […]
3. i
templi sono stipati di banchieri in grembiule di pelle e maglietto. Questo è un
fatto di grande significato se si pensa che il sistema bancario francese,
dominato dalla casa Rothschild, gran culla di venerabili << 33 >> ,
aveva l’egemonia assoluta del mercato europeo dei capitali dal quale dipendeva
il regime finanziario del regno sabaudo. Stando all’archivio storico della
Banca d’Italia, il debito estero sabaudo, contratto e gestito dai francesi, a
cavallo del 1860 ammontava a 3 miliardi contro i nove del prodotto interno
lordo: era un rapporto molto alto per quel tempo; ed oggi, rifacendo il verso
al linguaggio massonico, possiamo considerarlo la << pietra angolare
>> del debito pubblico che nel giro di centoventi anni è diventato una
voragine. Non è tutto: la casata dei Rothschild – consociata a Londra con il
gruppo degli Hambro, altra storica culla di << 33 >> - in quel
periodo controllava l’83% dei pagamenti all’estero dei titoli di Stato e la
quasi totalità delle vendite immobiliari sul mercato europeo, compresi i beni
che venivano progressivamente espropriati agli ordini ecclesiastici. Ma soprattutto
garantiva i prestiti esteri che consentivano a Cavour di portare avanti
>> i suoi
ambiziosi piani 32 .
Incrociando
le informazioni di De Marco, Petacco e quelle di Nassi, si giunge alla
paradossale conclusione che le guerre d’indipendenza abbiano avuto due
obbiettivi: per prima cosa arricchire la finanza sionista mediante
l’indebitamento degli Italiani; e inoltre quello di svendere l’intero
patrimonio immobiliare della Chiesa cattolica in Italia, secondo un copione già
visto al tempo della Rivoluzione francese. Attraverso le guerre d’indipendenza
si affermò anche il potere di una nuova classe sociale, che andava a sostituire
il clero e l’antica nobiltà: uomini politici corrotti, avidi banchieri e
faccendieri della peggior risma – tutti riuniti all’interno dei templi
massonici – assunsero il ruolo di esattori per conto della finanza sionista
rappresentata dai già citati Rothschild, Hambro, Perrier e così via. Attraverso
una gestione scriteriata della cosa pubblica, i nuovi tecnocrati tanto cari a
Saint-Yves d’Alveydre avrebbero perpetuato di generazione in generazione la
schiavitù del popolo italiano nei confronti dei banchieri stranieri.
Leggiamo
ora l’analisi di Marco Pizzuti: <<
per conoscere veramente il senso del Risorgimento italiano è indispensabile
innanzitutto riflettere sul comune denominatore che lega tutti (con rare
eccezioni) i suoi principali protagonisti […] Gian Domenico Romagnosi, Giuseppe
Mazzini, Francesco Crispi, Adriani Lemmi (banchiere massone del Risorgimento
coinvolto nel famoso scandalo della Banca Romana del 1892), Camillo Benso Conte
di Cavour, Filippo Buonarroti, Massimo D’Azelio, Luigi Luzatti (banchiere di
origine ebraica che rivestì le più alte cariche di governo), Goffredo Mameli
(di cui ci resta il famoso inno nazionale), Ernesto Nathan (Gran Maestro
massone e finanziere ebreo), Silvio Pellico, Nino Bixio, Bettino Ricasoli,
Guglielmo Oberdan, Vittorio Emanuele Orlando e Giuseppe Garibaldi furono tutti
illustri membri della massoneria […] Ma la massiccia occupazione dei ruoli di
potere da parte degli uomini della confraternita non si limitò solo all’arena
politica e riguardò ogni aspetto sociale e culturale nazionale […] Giovanni
Pascoli, Ugo Foscolo, Gabriele D’Annunzio, Giosuè Carducci, Vincenzo Monti,
Niccolò Paganini, Carlo Pisacane e Vittorio Alfieri, tanto per citare solo
alcuni tra coloro che hanno indossato ufficialmente il rituale grembiule
massonico >> 33.
Pur
partendo da dati diversi da quelli di De Marco anche Pizzuti si allinea alla
nostra tesi secondo la quale il Risorgimento sarebbe un esperimento studiato a
tavolino dagli “Illuminati”. Sentite le parole di Pizzuti a proposito di
Cavour: << si può ragionevolmente
supporre che tutta la politica savoiarda di cui era portavoce venisse decisa da
personaggi come lord Palmerson (insigne massone) e A. Pike (Gran Maestro
dell’ordine dedito al culto luciferiano gnostico e promotore dell’odio
razziale) >> dal momento che <<
tutte le logge nazionali sono coordinate “dall’alto” (dai soliti finanzieri
invisibili) per seguire un filo comune. Secondo l’Acacia Massonica Camillo
Cavour […] prendeva direttamente ordini dai leader della fratellanza
internazionale. Non può quindi apparire un caso il fatto che Cavour avesse
stretti rapporti con i Rothschild e si fosse formato politicamente proprio in
Inghilterra, il paese dove venne introdotto ai segreti dell’associazione di cui
entrò a far parte in seguito >> ovvero la massoneria 34 .
La
massoneria era un fenomeno sociale e politico che abbracciava l’intera civiltà
occidentale dall’Europa al continente americano. Nel corso della nostra
ricostruzione abbiamo però visto che nel XIX secolo il mondo finanziario
internazionale impiegava la Contro-Chiesa come filtro tra sé stessa e il mondo
della massoneria dalla quale provenivano quei “bassi iniziati” che avrebbero
schierato le armate di tecnocrati necessarie a governare gli Stati moderni –
ovvero a manipolare le masse – e la complessa macchina dell’economia
capitalistica – ovvero a gestire il conflitto tra capitale, produzione e forza
lavoro. A un’analisi superficiale parrebbe quasi che questa dimensione sia
assente nella Storia del Risorgimento, trovandosi esso schiacciata tra
l’ateismo militante della massoneria italiana e il fanatismo antimassonico
della Chiesa cattolica. In realtà un filtro, uno schermo esiste anche in questo
caso: la sua importanza, nei disegni degli “Illuminati”, è tale che se non ci
fosse sarebbe stato necessario inventarlo. Come appunto fu. Stiamo parlando del
“movimento carbonaro”.
Seguendo
la ricostruzione di Pizzuti – che si
fonda, a quanto ci pare di capire, sull’autorità di Epiphanius – si può
dire che << La Carboneria […] sarebbe stata fondata nel 1815 dal massone
genovese Antonio Maghella proprio per portare avanti lo stesso programma
politico della rivoluzione francese. Organizzata in “Vendite” su vari livelli,
secondo il classico schema massonico, essa operava in stretto contatto con i
supremi consigli del 33° grado del Rito Scozzese, il cui vertice si chiamava
appunto “Alta Vendita”, un collegio internazionale composto da quaranta membri.
Nel 1847 si riunì a Strasburgo un Convegno Internazionale delle massonerie per
preparare il piano rivoluzionario che avrebbe condotto alla nascita di una
confederazione europea. Nel 1848 le frange insurrezionaliste passarono
all’azione guidando e fomentando rivolte a Parigi, Berlino, Vienna, Praga,
Milano, Venezia, Napoli e Roma. Ma è bene sapere che sia Giuseppe Mazzini
quanto l’intero ordine dei carbonari appartenevano agli Illuminati di Baviera
>> 35 .
A
questo punto Pizzuti pare perdere il bandolo della matassa facendo un vago
accenno alla fede di Mazzini nella reincarnazione, lì erroneamente attribuito a
un non ben identificato culto massonico. In realtà nel XIX la massoneria si era
distaccata dalla sua originaria dimensione spirituale – “magica” e “alchemica”
direbbe Giorgio Galli – pur conservando intatto l’antico patrimonio simbolico e
rituale 36 . Proprio per questo si aprirono gli spazi di manovra per
l’azione sovversiva di una vera e propria Contro-Chiesa. La reincarnazione è un
principio religioso proprio delle religioni indiane: innanzitutto l’Induismo e
il Buddismo, ma anche la Società Teosofica di madame Blavatsky. Erano queste le
misteriose credenze religiose di Mazzini? Ancora Pizzuti, quasi inavvertitamente,
ce lo conferma parlando della collaborazione tra Mazzini e Anne Beasant, che
succedette alla Blavatsky alla guida della Società Teosofica.
Un
altro accenno è degno di essere maggiormente investigato: << Mazzini inoltre aveva come stretto collaboratore l’israelita
Henry Mayer Hyndman, un marxista a capo dell’associazione chiamata The National
Socialist Party >> 37 . Poiché l’israelita Hyndman figura
tra i fondatori della Fabian Society, uno dei centri motori della cospirazione comunista
38 , possiamo dunque additare nelle società carbonare quel secondo
livello occulto che si celava dietro alla massoneria italiana. Ciò parrebbe
confermato, indirettamente, dalla ben nota amicizia di Mazzini col grande
“illuminato” americano Albert Pike.
Resta
sempre sullo sfondo, naturalmente la figura inquietante di James Rothschild, la
cui avidità di denaro era pari alla vanagloria di Camillo Benso conte di Cavour
e re Vittorio Emanuele II. Ne fece le spese anche il Regno delle due Sicilie,
che era la preda più grossa su cui quella banda di banditi, ora nominati per
nome e cognome, potessero mettere le mani. Marcello d’Orta scrive: << Alla vigilia dell’Unità d’Italia,
circolavano nella penisola 667 milioni di ducati, così divisi: 22 in Lombardia,
nel Parmense, nel Modenese e a Venezia, 85 in Toscana, 90 negli Stati
Pontifici, 27 nel Regno sardo-piemontese, e 443 nel Regno delle Due Sicilie.
Dopo l’impresa di Garibaldi, la quasi totalità della ricchezza “napoletana”
andò al Piemonte, e Camillo Benso conte di Cavour potè saldare i suoi enormi
debiti con i Rothschild. Il Regno borbonico fu depredato di quasi tutte le sue
sostanze (il Banco di Napoli aveva una riserva aurea superiore di quasi quattro
volte a quelle di tutte le altre banche italiane messe insieme) >> 39
.
Nel
1860 tanto per Cavour quanto per Vittorio Emanuele II era dunque questione di
vita o di morte impadronirsi dell’oro borbonico. Per evitare che la situazione
degenerasse in un conflitto internazionale l’intera operazione sarebbe stata
gestita dal Grande Oriente d’Italia. Proprio per questo Enrico Nassi definisce
la spedizione dei Mille come la <<
“prima grande interferenza profana” di una lobby massonica nella storia
d’Italia, ideata e gestita nel segreto del tempio >> 40 .
Questo storico della massoneria, già più volte citato nel nostro lavoro, cerca
di ricostruire sulla base dei << si racconta >> e di <<
un’esigua manciata di documenti >> il ruolo avuto dal Grande Oriente
d’Italia nell’avventura garibaldina depurandola dalle scorie di una distorta storiografia,
che fu immediatamente fabbricata dalle élite al potere come mito
autocelebrativo. Scrive Nassi che l’azione del GOI << si è snodata lungo quattro direttive:
-
la mediazione dei contrasti
ideologici, risolta con l’emarginazione politica e militare dell’ala più
intransigente, repubblicana e anticlericale […] Alla riuscita dell’operazione
contribuì la cooptazione nel vertice massonico di alcuni mazziniani iniziati
durante l’esilio a Londra e degli uomini più in vista nella “Società nazionale”
di Daniele Manin, disposti a schierarsi con casa Savoia purché facesse sua la
causa italiana […] non indifferente, infine, l’appoggio dei quadri più dinamici
della borghesia imprenditoriale, che in un mercato interno senza frontiere
vedevano la maggior occasione di sviluppo e di allineamento dell’Italia allo
standard dei paesi più avanzati d’Europa;
-
la raccolta dei << mattoni
>>, realizzata con significative (ma scarse) offerte volontarie e
alimentata nel tempo da un buon flusso di finanziamenti bancari e di beni e
servizi da parte delle maggiori industrie cotoniere lombardo-piemontesi, dei
costruttori di strade e ferrovie e di fabbricanti d’armi. Questo è stato il
lavoro più facile, giacché a favorirlo, oltre alla passione civile che legava i
quadri massonici e quelli della classe dirigente, c’era il governo,
ufficialmente contrario all’impresa, ma largo di promesse sul piano delle
forniture e delle commesse statali. Mancavano le navi, ma l’armatore Raffaele
Rubattino, << patriota genovese iniziato all’Arte Reale >>,
provvide a fornire il Piemonte e il Lombardo, le due navi più veloci di quelle
avute in concessione dal governo;
-
un’azione diplomatica parallela a
quella del governo per stabilizzare l’adesione francese. Ma in particolare per
evitare contraccolpi sul versante inglese; e questo è un altro colpo andato a
segno come dimostra l’atteggiamento assunto dalla flotta della regina Vittoria
nel momento più cruciale dell’impresa garibaldina […]
-
una costante pressione sullo stato
maggiore dei Mille, quasi al completo di obbedienza massonica, per impedire che
Garibaldi, galvanizzato dal successo dell’impresa, mettesse il governo di
fronte al fatto compiuto di una marcia su Roma. Questa deve essere stata la
mediazione più difficile […] >> 41.
A
proposito della posizione britannica nei confronti della spedizione dei Mille
Nassi cita l’aneddoto della Royal Navy, postasi a schermo tra i garibaldini che
stavano sbarcando a Marsala e la flotta borbonica: quest’ultima avrebbe potuto
spazzare via gli invasori con poche cannonate, ponendo immediatamente fine
all’avventura di Garibaldi ma fu trattenuta, al momento decisivo, dal timore di
provocare un grave incidente diplomatico con la Gran Bretagna. Ma si trattava
di ordini provenienti dal Governo inglese o da una qualche realtà di potere
occulta con sede in Gran Bretagna? Secondo Aldo Mola << la spedizione dei Mille si svolse dall’inizio alla fine sotto
tutela britannica o, se si preferisce, della massoneria inglese >> 42
. Le prove parrebbe averle trovate Giulio Vita, che afferma: << studi in archivi e su periodici di
Edimburgo mi hanno permesso di rilevare e confermare il versamento a Garibaldi
di una somma veramente ingente, durante la sua breve permanenza a Genova, prima
che la spedizione sciogliesse le ancore. La somma riferita con precisione è di
tre milioni di franchi francesi. Questo capitale, tuttavia, non venne fornito a
Garibaldi in moneta francese, bensì in piastre d’oro turche >> 43
. Ecco quindi come fu possibile al Grande Oriente d’Italia di integrare
le magre offerte dei “fratelli”, i << mattoni >> di cui ci parlava
il Nassi.
L’intera
spedizione dei Mille si risolse così in una colossale farsa, proprio come si
rivelerà in seguito la Terza guerra d’indipendenza. Impressionante è la
testimonianza del cronista di parte borbonica Giacinto De Silvio (1814-1867),
che denunciava << la trama di
imbrogli e corruzioni con cui inglesi e piemontesi si comprarono tutto il
governo di Ferdinando II, compreso il primo ministro Liborio Romano e larga
parte degli stati maggiori militari e della burocrazia, che di fatto
disarmarono un esercito e una marina tra le più potenti della penisola di
fronte a mille volontari disomogenei e male armati >> 44 .
Tra questi vi era il capitano di fregata Guglielmo Acton, che a Marsala nel 1860,
come ufficiale borbonico, si rifiutò di sparare sui garibaldini e poi cambiò
bandiera, partecipando al cannoneggiamento nel 1861 dell’ultima roccaforte dei
Borboni: Gaeta. Acton farà poi una brillante carriera nella Regia Marina, che
avrà il suo fiore all’occhiello nella vergognosa sconfitta di Lissa. Che dire poi
di quel generale Landi che a Calatafini avrebbe potuto spazzare via in cinque
minuti i garibaldini, ma che inspiegabilmente ordinò la ritirata? << Si scoprì in seguito che il
generale Landi aveva già in tasca una fede di credito, cioè un assegno con cui
qualcuno aveva, come dire, “agevolato” il suo passaggio alla causa dell’unità
d’Italia. L’ininterrotta catena di successi di Garibaldi si spiega anche così.
A differenza dei sottufficiali e dei soldati di Francesco II, lo stato maggiore
dell’esercito borbonico con poche eccezioni si era già fatto corrompere prima
dell’arrivo dei volontari garibaldini. Emissari piemontesi hanno da tempo
preparato il terreno allo sbarco in Sicilia avvicinando ufficiali e funzionari
borbonici. Hanno loro offerto promozioni nel futuro stato sabaudo e ingenti
ricompense in piastre turche, una valuta all’epoca facilmente convertibile e
usata in tutti i porti del Mediterraneo >> 45 .
Il
saggista Lorenzo Del Boca precisa che la piastra turca era la moneta
commerciale di allora, ma era anche la <<
moneta delle tangenti, perché impediva di indicare da dove venivano questi
soldi e quindi quale malaffare c’era dietro >> 46 .
Una
volta conseguita l’unità politica della Penisola, la già ricordata Loggia
Ausonia di Torino dovette accelerare i tempi per condurre a unità anche le
varie frange della massoneria italiana. A questo punto, pur calibrando
attentamente le parole, Nassi rivela un aspetto di grande importanza per
comprendere la differenza tra la massoneria nostrana e quella dei Paesi
anglo-sassoni: << Quello che
mancava all’Ausonia era un contesto esoterico proprio dell’Arte Reale, benché
nelle Logge fossero d’obbligo la gestualità e il linguaggio, l’abbigliamento,
gli strumenti e i gioielli rituali importanti da Parigi e da Londra. Oppure
reinventati sull’onda della memoria e di una manualistica mal tradotta e
comunque troppo ermetica: cioè un cocktail di modelli di cui nessuno, o quasi,
conosceva il valore e il significato simbolico. Di conseguenza la ritualità
aveva una sola funzione pratica: quella che gli psicologi indicano come
un’esclusiva forma di assoggettamento del neofita, tanto più forte e vincolante
quanto più intenso è il mistero esoterico della cerimonia d’iniziazione e della
successiva obbedienza >> 48 . Da qui il timore degli
spiriti più inquieti che gli interessi profani finissero per prevalere
all’interno del Tempio, come poi sarà.
Un
altro problema sul tavolo era la ricerca di una figura autorevole a cui
affidare le redini del Grande Oriente d’Italia e per mezzo del quale
identificare, in modo ancora più forte, massoneria e Risorgimento. Serviva un
testimonial, come diremmo oggi, e perciò fu fatto un casting. Il primo
candidato ad essere scartato fu Garibaldi, che malgrado la fresca promozione al
33° grado era considerato imprevedibile e ingovernabile. Il “fratello in
pectore” Cavour, ormai vecchio e malato, declinò l’invito , sostenendo
piuttosto la candidatura di Costantino Nigra. La sua gran maestranza durò poco
e gli successe il siciliano Filippo Cordoba. Vero e proprio tecnocrate nel
senso descritto da Saint-Yves d’Alveydre, Cordoba viene descritto dal Nassi
come un recordman << per
l’incredibile quantità di cariche e di strutture operative che gestiva in
contemporanea, dominando una piramide di potere politico-amministrativo di
proporzioni gigantesche >> 49 .
Poiché
al peggio non c’è mai fine, a Cordoba succederà Adriano Lemmi che merita una
trattazione separata.
Note
1.
1. I passi dell’opera di De Marco, Revisione della Storia dell’Unità d’Italia di seguito citati sono stati consultati su http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Personaggi/Cavour01.htm in data 30/07/205.
2. Ibidem
3. L’espressione “personale straniero di rinforzo” qui utilizzata è stata presa in prestito da Solange Manfredi, autrice del libro Psyops.
4. De Marco, op. cit.
5. Ibidem
6. E. Nassi, La massoneria in Italia, Newton, Roma 1994, p. 25
7. De Marco, op. cit.
8. Ibidem.
9. Ibidem.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ibidem.
14. Ibidem.
15. Ibidem.
16. Ibidem.
17. Ibidem.
18. Ibidem.
19. Ibidem.
20. E. Cernuschi, Battaglie sconosciute. Storia riveduta e corretta della Regia Marina durante la Grande Guerra, In edibus, 2014, pp. 146-147
21. De Marco, op. cit.
22. A. Petacco, O Roma o morte. 1860-1870: la tormentata conquista dell’unità d’Italia, Mondadori, 2010.
23. Ibidem, p. 92-93.
24. Ibidem, p. 91
25. Ivi.
26. M. Pizzuti, Rivelazioni non autorizzate. Il sentiero occulto del potere, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2013, p. 87.
27. A. Petacco, op. cit. , p. 94.
28. Ibidem, p. 102.
29. Ivi.
30. E. Cernuschi, Battaglie sconosciute. Storia riveduta e corretta della Regia Marina durante la Grande guerra, In edibus, pp. 20-21.
31. A. Petacco, op. cit. , pp. 131-134
32. E. Nassi, op. cit. , pp. 25-26.
33. M. Pizzuti, Rivelazioni non autorizzate. Il sentiero occulto del potere, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2013, pp. 79-80
34. Ibidem, p. 80. Il riferimento ad Acacia Massonica si trova a p. 81 del numero febbraio / marzo 1949.
35. Ibidem, p. 83.
36. In realtà qui Pizzuti sembra fare confusione tra le idee gnostiche di quel mondo alchemico e magico da cui è figliata la massoneria e il vero e proprio culto gnostico che accomuna i vari elementi della Contro-Chiesa.
37. M. Pizzuti, op. cit. , p. 83
38. Epiphanius, Massoneria e sette segrete. La faccia occulta della storia, Fondazione Testimonium, pp. 177 e sg.
39. M. Pizzuti, op. cit. p. 83
40. E. Nassi, op. cit. , p. 28.
41. Ibidem, pp. 30-31.
42. Citato in M. Pizzuti, op. cit. , p. 81
43. Ivi.
44. Ibidem, pp. 83-84
45. Ibidem, p. 85.
46. Ibidem, p. 86.
47. Ivi.
48. E. Nassi, op. cit. , p. 33.
49. Ibidem, p. 35
L'ARTICOLO CHE AVETE LETTO PROVIENE DAL SAGGIO MUSSOLINI E GLI "ILLUMINATI" DI ENRICO MONTERMINI.
L'ARTICOLO CHE AVETE LETTO PROVIENE DAL SAGGIO MUSSOLINI E GLI "ILLUMINATI" DI ENRICO MONTERMINI.
L'OPERA E' DEPOSITATA PRESSO LA SIAE ED E' TUTELATA DALLE NORME A DIFESA DEL DIRITTO D'AUTORE.
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