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lunedì 2 novembre 2015

Ebrei e massoni, l’altra faccia del Risorgimento.

Prima di parlare di Mussolini e dell’Italia fascista, sarà opportuno liquidare un certo numero di luoghi di comuni sul Risorgimento e l’Italia liberale. Premesso che non è questa la sede per analizzare in modo approfondito un tema tanto vasto, indicheremo tre punti fondamentali che intendiamo esplorare: il ruolo di esecutore che gli “Illuminati” hanno assegnato a Cavour e al Venerabile Maestro Garibaldi; la nascita della massoneria in Italia; la figura, tuttora sconosciuta al grande pubblico, del Gran Maestro della Massoneria Universale Adriano Lemmi.
Nel tracciare un’immagine assolutamente fuori dagli schemi di Cavour, ci rifaremo allo studio di Carmine De Marco Revisione della Storia dell’Unità d’Italia 1 soffermandoci solo sui punti di maggior interesse per il nostro studio che possono essere riassunti in questa tesi:
<< Nel corso di queste pagine noteremo (fatto pochissimo rilevato dagli storici delle vicende dell’unità italiana e, in ogni caso, non evidenziato) la comunanza di interessi tra ambienti finanziari protestanti e ambienti finanziari ebraici e noteremo anche la frequentazione del Cavour di quegli ambienti e del suo coinvolgimento, personale e da statista, in quegli interessi. Una lettura delle vicende di quegli anni in chiave anticattolica, o, per meglio dire, ostile agli ambienti politici e finanziari legati al cattolicesimo, è da preferire alla stantia storia dell’epopea risorgimentale e delle ragioni della nascita dello Stato unitario italiano >> 1 .
Questo scontro tra gruppi finanziari antagonisti si ripeterà ancora nel corso degli anni Venti del Novecento, quando Mussolini edificherà il Regime: lo vedremo più avanti. Per il momento professiamo un’intenzione: denunciare la malafede con la quale si è tentato di fare del dittatore romagnolo un comodo capo espiatorio per colpe che invece sono ataviche nella storia di questo Paese. La presente analisi del contesto, delle motivazioni e dei metodi con i quali si è unificata l’Italia ci permette appunto scoprire che Mussolini nel 1922 assunse il governo di una nazione ben diversa da quella che ci è stata raccontata. Seguendo questo percorso di conoscenza affermiamo che certe azioni delittuose, messe in atto dai “poteri forti” contro milioni di italiani, possono essere rintracciate con continuità in tutta la storia italiana, prima e dopo il ventennio mussoliniano e anche oggi. A patto però di non cedere alla comoda ricostruzione di un Paese della fantasia, quale quella che ci hanno consegnato il mondo accademico, l’editoria, la televisione. La strategia del silenzio e della mistificazione, messa in atto da una classe intellettuale complice, ha finora impedito alla maggioranza degli italiani di comprendere fino a che punto certi giochi si ripetano ciclicamente. Noi tenteremo quindi di identificare questi poteri e di smascherare le azioni criminali iniziando con lo smantellare l’epopea risorgimentale.
Iniziamo col dire che per ben dieci anni, tra il 1834 e il 1843, il giovane Camillo Benso Conte di Cavour conduce una vita dissoluta spostandosi continuamente tra Ginevra, Parigi e Londra. Durante questi viaggi egli entra in contatto con ambienti finanziari ebraici e protestanti contigui alla massoneria. Ebbe così modo di conoscere personalmente due dei più potenti banchieri al mondo: James Rothschild a Parigi e Odier a Ginevra. Col loro aiuto finanziario Cavour, prima di darsi alla politica, si dedica all’imprenditoria collezionando però una sequenza impressionante di fallimenti. La prima considerazione la lasciamo tirare all’eccellente De Marco: << In tutti libri da me consultati non ho mai trovato la spiegazione dell’origine dei capitali che Cavour investiva e distruggeva. Salvo alcuni accenni ai banchieri genovesi De La Rüe ed ai banchieri ginevrini de La Rive che finanziarono parzialmente alcune imprese, il resto è mistero >> 2 . La seconda considerazione proviamo a tirarla noi: il Cavour dedito alla bella vita, al gioco d’azzardo, alla speculazione in borsa e a fallimentari attività imprenditoriali descritto da De Marco è un soggetto in possesso di quelle debolezze caratteriali che lo rendono perfetto per essere arruolato come “personale straniero di rinforzo” 3 da parte di servizi segreti e società segrete stranieri.
Nota De Marco: << cosa sia successo nel 1850 perché da sfaccendato e dilapidatore di sostanze paterne si sia trasformato in uomo politico, non si capisce. È logico supporre che nei suoi viaggi in Inghilterra ed in Francia Cavour sia venuto a contatto con ambienti della grande finanza internazionale, interessati a far conquistare nuovi mercati ai prodotti delle industrie da loro finanziate o interessati all’impiego dei loro capitali. In quegli anni gli Stati italiani erano rigidamente protezionisti e non favorivano l’importazione di prodotti dall’estero. Il primo Stato italiano ad abbattere le barriere doganali fu il Piemonte per l’opera del Cavour: prima ministro dell’agricoltura, poi delle finanze, infine primo ministro. La grande finanza internazionale, che condizionava tutti i governi, ebbe interesse allora a far appoggiare le mire espansionistiche del Piemonte, oberato di debiti interni per le precedenti sconfitte nelle guerre di conquista e per l’attuazione della politica doganale liberistica. Nel 1857 il saldo passivo tra importazioni ed esportazioni aveva raggiunto i 100 milioni di lire. Era un calcolo di convenienza reciproca. Da un lato il capitale dei finanzieri francesi ed inglesi veniva remunerato per i prestiti, garantiti dall’appoggio dei loro governi alla politica espansionistica del Piemonte e per i consumi dei loro prodotti. Dall’altro lato il Piemonte attuava una politica di investimenti interni e di conquiste territoriali. In fondo conveniva alle due parti. Gli unici a non essere d’accordo erano i cittadini piemontesi che pagarono in tasse ed in vite umane quella politica: ma questo aspetto del problema non interessava assolutamente i finanzieri, Cavour e Vittorio Emanuele >> 4 .
Gli ambiziosi programmi di Cavour, in effetti, necessitavano di ingenti capitali: << il ricorso al credito estero per far fronte alle spese del programma ferroviario avvenne con un prestito concluso con la banca Hambro di Londra che fruttò al netto quasi 80 milioni >> 5. Da notare che secondo lo storico della massoneria Enrico Nassi il gruppo inglese degli Hambro era una fucina di Venerabili “33”, proprio come i già citati Rothschild 6 .
Aggiunge De Marco: << L’aumento della pressione tributaria non bastò a coprire l’aumento notevolissimo della spesa pubblica negli anni successivi, sicché il bilancio piemontese rimase costantemente in deficit e furono necessari nuovi ricorsi al credito. Forti difficoltà trovò Cavour nella politica bancaria. Non riuscì infatti nel luglio 1851 a fare approvare dalla Camera il suo progetto di rafforzamento della Banca Nazionale. Ma il progetto, che in sostanza attribuiva alla Banca il monopolio dell’emissione di biglietti a corso legale, fu respinto. Alcuni lo giudicarono troppo ardito; altri lo giudicarono non rispondente ai princìpi liberisti tanto calorosamente sostenuti dallo stesso Cavour >> 7 . Sarebbe interessante sapere chi stampava all’epoca la carta moneta del Regno Sabaudo…
Malgrado Cavour avesse dichiarato che la riforma della finanza pubblica era una priorità assoluta, i risultati della sua opera possono essere così sintetizzati: << Alla fine del 1853 i prestiti esteri avevano reso un prodotto netto di oltre 304 milioni. Al primo gennaio 1859 il debito pubblico piemontese ascendeva ad oltre 786 milioni! >> 8 . Possiamo già affermare che il senso recondito dell’azione politica del “grande statista” fosse di schiavizzare l’intero popolo italiano ai magnati della finanza internazionale mediante il debito pubblico, come vedremo meglio in seguito. Nel 1854 la situazione del debito pubblico era già fuori controllo, al punto che persino il fedelissimo banchiere Hambro pretendeva un controvalore in cambio di nuovi finanziamenti: Cavour si rivolse allora all’altro “amico”, il Rothschild, che erogò un nuovo prestito per 35 milioni. Quello che De Marco sembra non cogliere, parlando di un Cavour offeso che rompe con il banchiere Hambro, è il fatto che i Rothschild – altra storica culla di venerabili “33” – fossero consociati a Londra proprio con il gruppo Hambro, come ci informa Nassi: ciò farebbe pensare a un sottile gioco delle parti per estorcere tassi di interesse ancora più pesanti al Regno Sabaudo.
Un’altra tremenda mazzata alle finanze fu la partecipazione alla guerra di Crimea, grazie alla quale il Regno Sabaudo poté sedersi al tavolo della pace con le grandi potenze – Francia, Gran Bretagna e Russia – ed esporre il problema dell’unità d’Italia. A quel tempo fece scalpore una lapidaria sentenza: << Quindici mila fra di voi - scriveva Mazzini in un appello ai soldati che stavano per partire per la Crimea e in una lettera aperta al Cavour - stanno per essere deportati in Crimea. Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia. Per servire un falso disegno straniero, le ossa vostre biancheggeranno calpestate dal cavallo del cosacco >> 9 . L’aspetto più curioso della vicenda non risiede certo nel ben noto presenzialismo che sempre ha afflitto la politica estera italiana, quanto piuttosto al modo in cui maturò la decisione dell’intervento militare. Il governo inglese infatti si era limitato a chiedere al Regno del Piemonte un contingente di 10.000 soldati da schierare in Crimea sotto il proprio comando e a proprie spese. << Il Piemonte, orgogliosamente, non accettò che i suoi soldati fossero pagati come mercenari, voleva fornirli da alleato. Unico problema: non aveva come mantenerli, quindi chiese in prestito i soldi. Solo che, invece di chiedere in prestito la somma che occorreva a mantenere i soldati, 600 mila sterline, cioè 15 milioni di lire, ne chiedeva due milioni, cioè 50 milioni di lire >> 10 al tasso di interesse del 4% annuo. Il governo di Sua Maestà dovette farsi garante, di malavoglia, dei prestiti usurai concessi dall’oligarchia finanziaria degli “Illuminati”. Mentre questi fatti vengono tuttora taciuti per pudore dai nostri intellettuali sui giornali e sui libri, i contemporanei ebbero invece chiara consapevolezza della realtà delle cose: << Il giornale Armonia (19, 20, 30 gennaio 1855) sostenne che l’alleanza fosse avvenuta a condizioni "non troppo onorevoli", che da essa vi erano da attendersi solo "umiliazione, guerra e debiti", e che alla sua origine v’era la disperata situazione finanziaria, la quale soltanto aveva indotto Cavour a "vendere" 15 mila soldati piemontesi per "un imprestito di 25 milioni" >> 11 . Malgrado 2.000 caduti, per una serie di ragioni, che De Marco illustra molto bene nel suo saggio, il Regno Sabaudo non otterrà nessun vantaggio al tavolo della pace: l’intera guerra, dunque, fu promossa con l’unico obbiettivo di accrescere l’indebitamento del regno nei confronti dell’oligarchia finanziaria internazionale. Ancora una volta, dunque, il conte di Cavour agiva come un semplice esecutore degli ordini degli “Illuminati”.
La Seconda guerra d’indipendenza è un esempio ancora più smaccato di questa teoria. Essa fu decisa a tavolino da Napoleone III e da Cavour durante l’incontro di Plumbièrs. Così De Marco commenta il resoconto ufficiale di quell’incontro: <<  La guerra all’Austria andava fatta per consentire al Piemonte, con i nuovi acquisti territoriali, di poter ripagare l’enorme debito accumulato anche con le sue guerre precedenti. In pratica i creditori dovevano finanziare ancora una volta il Piemonte per poter riprendere i vecchi ed i nuovi prestiti. Dall’altro lato Napoleone III facendosi garante della riuscita della guerra, guadagnava Nizza e la Savoia, scaricando il costo della guerra sul Piemonte: tipico caso di usura! Per Cavour non aveva importanza, un debito in più uno in meno >> 12 .
Per le ragioni sopra esposte il 20 novembre 1855 re Vittorio Emanuele II e il conte di Cavour partono alla volta di Parigi: << gli incontri più importanti Cavour li ebbe con Rothschild e con Isaac Péreire, i due massimi esponenti del mondo finanziario francese. Péreire gli parve "un homme étonnement habile" "un uomo straordinariamente abile" dotato di "plus d’esprit que tous les banquiers de Paris réunis" "più immaginazione di tutti i banchieri di Parigi". Con i ministri Magne e Rouher e con i finanzieri interessati, che, in aggiunta al Laffitte, presidente della società ferroviaria Vittorio Emanuele, includevano i ricordati Rothschild e Péreire e altri ancora, preparò l’accordo poi sanzionato il 7 dicembre in vista della fusione della Vittorio Emanuele con altre iniziative ferroviarie francesi […] in tal modo 200 milioni, raccolti sui mercati finanziari stranieri, avrebbero fecondato l’economia del paese […] Sempre negli incontri avvenuti a Parigi, Cavour, spinto da Bolmida, presidente della Cassa di Commercio e corrispondente torinese di Rothschild, concluse con questi un accordo per la creazione di una grande banca mobiliare e Rothschild si dichiarava disposto a sostenere una impresa che doveva diventare "une affaire Italienne", atta a estendere l’influenza del Piemonte in tutta la penisola italiana >> 13 . Ecco quindi provati i contatti diretti di Cavour con gli “Illuminati” ed ecco spiegato chiaramente il loro disegno: “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” – celebre motto erroneamente attribuito a Massimo d’Azelio – significherebbe perciò vendere il popolo d’Italiano al potere usuraio della finanza sionista e ridurlo, mediante un debito inestinguibile,  nella triste condizione di una massa di schiavi. Date, nomi e fatti sono qui chiaramente esposti: se qualcuno ha qualcosa da obbiettare li contesti pure, ma – per favore – non si tiri in ballo la solita accusa di antisemitismo per tacitare discorsi scomodi. E’ anche giusto, a nostro avviso, che la gente comune venga informata di queste cose: l’ignoranza, infatti, non paga mai.
Attraverso la narrazione di De Marco citiamo altre prove a sostegno della nostra ipotesi: << Si deve aggiungere che tra i due abili personaggi, Cavour e Rothschild, l’abile era solo quest’ultimo. Infatti Rothschild subito ebbe esitazioni e perplessità: alcune delle iniziative proposte non parevano al grande banchiere sufficientemente importanti né sufficientemente redditizie per ciò si posero gravi problemi per la sottoscrizione dell’aumento di capitale riservato a Rothschild. Cavour fu costretto a far collocare il capitale non sottoscritto oltre che sul mercato italiano anche a Bruxelles, Amsterdam e Ginevra, provocando un sensibile ribasso del titolo della Cassa di Commercio. Non migliori risultati ebbero altre iniziative bancarie promosse da Cavour, come quella del Credito Profumo che visse tra difficoltà e fu sciolto nel 1861 […] Uno dei risultati del viaggio a Parigi fu la conclusione con Rothschild e con la Cassa di Commercio e Industria di Torino del prestito di 40 milioni autorizzato con la legge del 26 giugno 1858. Rothschild e la Cassa avevano assunto ciascuno metà dell’operazione, ma la Cassa fungeva da intermediaria con altri istituti torinesi e genovesi, e di fatto l’affare fu accentrato nelle mani di Rothschild. Questo prestito doveva dare a Cavour una relativa tranquillità e consentirgli la sua azione diplomatica di provocazione dell’Austria >> 14
Mentre Cavour briga con Napoleone III e Vittorio Emanuele II per arrivare a un conflitto armato con l’Impero asburgico un testimone d’eccezione, il Massari, riferisce in data 25 dicembre 1858 la smania di Rothschild per avere indiscrezioni da Cesare Beretta sul contenuto del discorso della Corona. Vittorio Emanuele II avrebbe scelto parole tali da provocare una crisi diplomatica con Vienna? Gli speculatori attendevano ansiosi e il più ansioso tra loro era James Rothschild perché era particolarmente esposto in tutta la vicenda. Perciò il 9 gennaio successivo Cavour confida al Massari la preoccupazione, all’interno del Consiglio dei Ministri, per il tono minaccioso del discorso del re: si teme una reazione negativa alla Borsa di Parigi. Già in data 11 gennaio 1859 Massari annota le nuove preoccupazioni di Cavour: << mi dice: "Sarà più facile trovar danari dopo aver fatta toccare una sconfitta agli austriaci che prima". Sir James stamane mi mostra una lettera di John Samuel nella quale è detto che a Londra "all Jews believe in war", "tutti gli Ebrei sperano nella guerra" >> 15 .
Il 17 gennaio 1859 il principe Napoleone, figlio di Napoleone III, arrivava a Torino per sottoscrivere assieme a Vittorio Emanuele II una serie di accordi: << il trattato prevedeva l’impegno della Francia ad aiutare il Piemonte nel caso che fosse attaccato dall’Austria; la costituzione alla fine della guerra di un regno dell’Alta Italia, con possibilità di annettere i territori delle Legazioni; la cessione alla Francia della Savoia (la sorte della contea di Nizza era rinviata ad una successiva occasione). Al trattato erano annesse due convenzioni, una militare e una finanziaria. La prima stabiliva che le forze alleate da impegnare in Italia sarebbero state di circa 300 mila uomini, 200 mila francesi e 100 mila sardi; che il comando supremo sarebbe spettato all’imperatore. La seconda stabiliva che le spese di guerra sarebbero state rimborsate alla Francia dal regno dell’Alta Italia per mezzo di annualità corrispondenti a un decimo delle entrate annue del regno stesso >> 16 . Quest’ultimo aspetto, di natura finanziaria, sarà fondamentale per chiarire il successivo svolgersi degli avvenimenti.
Lasciando da parte il mistero, tuttora irrisolto, del motivo per cui l’Impero Asburgico si lasciò attirare nella Seconda guerra d’indipendenza, vediamo invece quale fu l’esito di quello stranissimo conflitto. Scrive De Marco:
<< Napoleone nel bel mezzo della guerra all’Austria si fermò. Invece di marciare su Vienna, firmò l’armistizio di Villafranca con l’imperatore d’Austria, senza consultare né Cavour né Vittorio Emanuele. Ai piemontesi non rimase altro che accettare la situazione, non prima, però, di rinegoziare con Napoleone III il costo della guerra. Napoleone, che non era stato ai patti, poiché si era accordato direttamente con l’Austria, invece di addebitare l’intero costo della guerra, circa 360 milioni, chiese al Piemonte di pagare solo 60 milioni. I documenti non chiariscono fino in fondo lo strano comportamento di Napoleone III. È indubbio che delle forti, fortissime, pressioni esterne fermarono Napoleone, che credeva di avere Francesco Giuseppe in pugno, e obbligarono l’imperatore austriaco ad accettare le trattative di pace con le forze militari ancora integre. Tra queste pressioni, ci furono quelle di natura politica e militare da parte della Prussia, dell’Inghilterra e della Russia. Ma non furono le sole e le principali; bisogna tenere conto, dal punto di vista austriaco, anche della rivolta ungherese, delle divisioni tra i militari, tra i politici e tra i diplomatici, della situazione economica e finanziaria e, principalmente, degli interessi a questa legati >> 16 .
De Marco a questo punto nota l’enigmatica presenza di Alessandro Bixio, fratello del più noto Nino, e la collera mostrata nei suoi riguardi dal principe Girolamo Bonaparte, che fino a quel momento era stato suo amico. La faccenda si fa assai intrigante quando teniamo conto che Bixio era un uomo d’affari legato ai banchieri ebrei Rothschild e Péreire. Cavour lo conobbe personalmente durante un viaggio a Parigi nel 1852. Qui il nostro “statista” ebbe il privilegio di osservare con i suoi occhi la singolare rievocazione del miracolo dei pani e dei pesci messo in atto dagli “Illuminati” all’indomani del colpo di stato di Napoleone III: << I capitali sorgono da tutte le parti. La prosperità finanziaria è immensa >> scrisse Cavour, che a Parigi fu folgorato come San Paolo sulla via di Damasco. Fu Alessandro Bixio l’intermediario << che fece da tramite tra Cavour e gli ambienti bancari ebraici. In quei colloqui nacquero tutte le iniziative industriali, in particolare ferroviarie, come la Vittorio Emanuele, bancarie e finanziarie che caratterizzeranno i successivi sette anni del ministero Cavour, fino alla guerra con l’Austria >> 17 .
Ecco quindi come De Marco spiega il ruolo interpretato da Alessandro Bixio al termine della guerra: << gli interessi rappresentati dal Bixio vinsero su quelli militari e dinastici dei napoleonidi! Ecco alla conclusione dei progetti discussi a Parigi nel 1852 il controllore: la presenza di Alessandro Bixio. Gli effetti della sua presenza si videro subito >> 18 , intendendo con ciò l’armistizio sottoscritto a Villafranca tra Napoleone III e Francesco Giuseppe. Questo basta e avanza a spiegare il motivo della collera del principe Girolamo Napoleone nei riguardi di Bixio.
A questo punto l’attenzione di Carmine De Marco si sposta sulla situazione interna dell’Impero Asburgico: << La situazione finanziaria dell’impero austriaco, prima e durante la guerra con il Piemonte, dava origine alle più serie preoccupazioni. Il riflusso dall’estero di titoli austriaci, in corso dai primi del 1859, aveva accentuato il drenaggio delle risorse valutarie della Nationalbank che aveva dovuto sospendere i pagamenti in contanti, mentre l’aggio sull’argento saliva in maggio al 40 per cento e il corso dei titoli di Stato austriaci crollava a Francoforte da 81 fiorini in gennaio a 38 in aprile. Tutta l’economia del paese veniva dunque investita da gravi tensioni inflazionistiche, mentre la capacità di importazione risultava drasticamente ridotta, ed il ministro delle finanze Bruck doveva mettere mano alle riserve metalliche della Nationalbank, con grave danno del credito al paese, per procurare all’esercito le forniture necessarie. Già per queste ragioni era chiaro che lo sforzo bellico non avrebbe potuto protrarsi più a lungo >> 19 .
Le informazioni fornite da De Marco sull’attacco speculativo scatenato dalla finanza internazionale contro l’Impero asburgico si sposano perfettamente col quadro esposto nel capitolo precedente a proposito dell’opera di infiltrazione ad altissimo attuata dagli “Illuminati” per mezzo dei seguaci di sir Bowler-Lyton: << gli inglesi reclutarono, richiamandosi a un passato (spesso inventato) di comunanze nordiche e ideali paganeggianti, diversi esponenti dei Servizi, della diplomazia e dell’establishment austriaco […] Lo scopo, in principio, fu meramente economico e consistette, in buona sostanza, nell’aggiogamento delle borse valori e merci di Vienna >> 20 .
Lasciamo all’eccellente De Marco un primo tentativo di conclusione: << Quattro giorni dopo l’armistizio [!], il 15 luglio 1859, durante il primo consiglio dei ministri dopo la sconfitta militare, l’imperatore Francesco Giuseppe rendeva pubblico il famoso Manifesto di Laxenburg col quale si affrettava a promettere alla borghesia un sostanziale mutamento di rotta […] Di lì a poco il Regolamento industriale austriaco abrogava il regime delle corporazioni, introduceva la libertà del lavoro, dava l’avvio alla prima rivoluzione industriale dell’Austria. Gli ebrei di Vienna ed i protestanti di Germania ringraziarono. Quattro giorni dopo la battaglia di Solferino, la borsa austriaca ebbe un rialzo! In novembre l’imperatore Francesco Giuseppe approvò la proposta di abolire molte restrizioni residue imposte alle comunità ebraiche dell’impero. Istituì, prima della fine dell’anno il Comitato per il debito di Stato […] poiché concordava con il ministro delle finanze Bruck sulla necessità di rassicurare gli investitori stranieri. Considerazioni: Insomma, vendendo e ricomprando i titoli del debito pubblico austriaco, la grande finanza internazionale faceva la guerra e la pace! Per amore o per forza i grandi mercati si dovevano aprire ai grandi capitali. Che questo fosse il principale scopo nella guerra fatta da Napoleone (o fatta fare a Napoleone) all’Austria, è dimostrato dall’armistizio di Villafranca, senza giustificazioni militari da parte della Francia e dal manifesto di Laxenburg >> 21 .
La seconda conclusione tenteremo di formularla in autonomia, confrontando la seconda guerra d’indipendenza con la terza (1866).
Quest’ultimo, disastroso conflitto – così come ci viene descritto nella tradizionale ricostruzione di Arrigo Petacco 22 – si presentano parecchi punti interrogativi. Il primo: l’esercito sabaudo, ancora in gran parte integro malgrado la sconfitta di Custoza, si ritira senza opporre alcuna resistenza di fronte alla tumultuosa avanzata dell’esercito asburgico. Fu così che una sconfitta non irreparabile sul piano tattico – 5 delle 6 divisioni di Vittorio Emanuele II erano state battute, su un totale di 20 divisioni mobilitate – si trasformò in una sconfitta strategica di dimensioni inaudite: una ritirata strategica generale, che lasciava l’intera Pianura Padana alla mercé dell’invasore straniero. Scrive Petacco: << Vittorio Emanuele era ancora convinto che la battaglia non fosse perduta, così come l’arciduca Alberto (il comandante nemico) era convinto di non averla ancora vinta. Disgraziatamente, a non essere convinto, era il generale La Marmora il quale, spento, avvilito, con la mente confusa, si considerava sconfitto prima ancora di esserlo. Infatti, la guerra fu effettivamente perduta soltanto il 1° luglio quando l’arciduca Alberto, dopo avere attraversato il Mincio ed essersi spinto a cavallo fino al basso Oglio senza incontrare resistenza, si persuase di essere lui il vincitore. Nel frattempo La Marmora aveva diramato l’ordine di ripiegare dietro il fiume Oglio ed era costata fatica ai suoi subalterni convincerlo a fermarsi lì. Lui voleva addirittura ritirarsi dietro l’Adda. Così, dopo poco più di ventiquattro ore, finiva una guerra che era costata più sangue ai vincitori che ai vinti: 5.150 fra morti e feriti tra gli austriaci, 3.281 agli italiani >> 23 .
Il secondo punto interrogativo: il Regio Esercito non aveva un comandante in capo né qualcosa che potesse essere lontanamente paragonato a una catena di comando. E’ un fatto assolutamente anomalo anche agli occhi di un profano di cose militari come il sottoscritto. Di fatto il generale La Marmora si dimise dalla carica di Ministro della Guerra per assumere il comando in capo dell’esercito. Tale speranza venne però frustrata da Vittorio Emanuele, il quale non solo non rinunciò al comando nominale dell’esercito ma addirittura volle essere presente sul campo di battaglia. La Marmora, masticando amaro, dovette accontentarsi della carica di Capo di Stato Maggiore alla quale ambiva anche il generale Cialdini. Quest’ultimo fu messo al comando di 8 schierate a Sud del Po e gli furono lasciati ampi poteri decisionali. Di fatto a Custoza La Marmora trattenne presso di sé 6 divisioni del Regio Esercito lasciando cinicamente che altrettante divisioni agli ordini di Vittorio Emanuele II fossero fatte a pezzi dall’esercito asburgico. All’indomani della sconfitta al re, che gli chiedeva conto della sua condotta, La Marmora rispose in modo criptico: << Vostra Maestà ha giusto il dire, ma bisognerebbe sapere il tutto >> 24 . Lo stesso Petacco a questo punto scrive: << Quale fosse il << tutto >> , però, non lo spiegò >> 25 . Forse bisognerebbe rivolgere la domanda al signor Rothschild: lui, evidentemente, conosceva “il tutto” se vogliamo dar credito alla lettera dall’ambasciatore francese a Londra, Charles-Maurice de Talleyrand, nel 1830, e nella quale si trova chiaramente descritta la strategia della finanza sionista. Afferma l’ambasciatore: << i Rothschild non si fanno scrupoli, combattono senza mezze misure chi minaccia di intaccare il loro potere e non si lasciano fermare nemmeno dalle guerre, anzi. La loro capacità sono tali che riescono a essere al contempo i banchieri di Cavour e di Metternich e la loro spregiudicatezza è pari alla loro abilità >> 26 . Vi era poi il generale Cialdini, rivale di La Marmora: vistosi rifiutato l’incarico di Capo di Stato Maggiore, egli aveva tuttavia ottenuto il comando di 8 delle 20 divisioni dell’esercito, schierate sul basso Po, e ampia autonomia decisionale. Di fatto come La Marmora a Custoza aveva abbandonato alla sconfitta Vittorio Emanuele, così Cialdini attese con le mani in mano la sconfitta di re Vittorio Emanuele II e la ritirata di La Marmora malgrado con la poderosa massa di 8 divisioni dovesse fronteggiare forze nemiche ridicole. Appena seppe della sconfitta del re a Custoza e dell’imbelle ritirata del generale La Marmora – che di lì a poco si sarebbe dimesso – Govoni disobbedì all’ordine del sovrano di attraversare il Po e, inspiegabilmente, si ritirò a Modena con tutte le sue forze. Non prima, tuttavia, di aver scaricato tutte le responsabilità del disastro su La Marmora e di aver cercato l’autorizzazione dal ministro della Guerra Ignazio De Genova di Pettenago – il quale, da Firenze, se ne lavò le mani come Ponzio Pilato rispondendo: << a queste cose dovreste pensarci voi generali >> 27 . Infine c’erano Garibaldi e i suoi volontari, che però non erano inquadrati nell’esercito sabaudo, nel Trentino Alto Adige.
Il terzo elemento anomalo: la Regia Marina gettò la spugna non dopo la sconfitta subita a Lissa, ma addirittura ancor prima che si combattesse.  L’ammiraglio Carlo Pellion conte di Persano, comandante dell’Armata Navale, aveva tergiversato, cercando di evitare in tutti i modi di combattere anche in presenza di espliciti ordini del governo. Solo quando il ministro De Pretis, nel corso di un incontro personale, minacciò di sbarcarlo Persano si decise all’azione. I due comandanti in subordine erano gli ammiragli Vacca e Albini: il primo, scontento per essere stato scavalcato – a suo dire – proprio da Persano nel comando; l’altro perché gli era stato assegnato il comando delle navi più antiquate. Mal consigliato Vacca, Persano improvvisò un’operazione anfibia contro l’isola fortificata di Lissa che sfociò in una sconfitta clamorosa. Al comando della forza navale da sbarco vi era Albini, che si era già mostrato contrario al piano: infatti non tentò neppure lo sbarco, disobbedendo agli ordini. Una volta comparsa sulla scena la flotta austriaca, la situazione per Persano precipitò. Infatti Albini e Vacca, << rivelatisi renitenti ai suoi ripetuti ordini di intervenire nella battaglia >> 28 , lasciarono Persano e la sua squadra navale da sole a sostenere l’intero peso della battaglia. Malgrado le dure perdite, la superiorità numerica e qualitativa della Regia Marina restava così netta da rendere ancora possibile la vittoria. Ma Persano << come La Marmora di Custoza, si sentiva sconfitto prima di avere portato a termine la sconfitta >> 29 . Probabilmente l’ammiraglio Persano non avrebbe mai potuto immaginare il contenuto di  una << sconsolata lettera che l’ammiraglio asburgico Wilhelm von Tegetthoff scrisse a Emma Litteroth il 26 luglio 1866, ovvero meno di una settimana dopo quell’azione, mediante la quale spiegava, tanto per incominciare, che il rapporto di forze tra gli italiani e gli austriaci non era stato modificato dallo scontro. Pertanto la squadra di Pola resta in condizioni di inferiorità e, di conseguenza, il blocco italiano di Venezia continuava come prima […] Il preteso mancato sfruttamento del successo subito rimproveratogli, di conseguenza, non era, per il comandante della flotta austriaca, che il frutto di fantasie di << quell’accolita di scribacchini farisei, i quali legiferano a Vienna, seduti dietro a una stufa, in materia navale >> 30 .
In conclusione tanto a Custoza quanto a Lissa due episodi negativi, ma non decisivi, si tramutarono in sconfitte strategiche di vaste proporzioni e in dure umiliazioni solo a causa della mancata volontà di generali e ammiragli di combattere. Abbiamo ancora una volta la sensazione che altri interessi, diversi da quelli militari e politici, fossero in gioco: proprio come ipotizza De Marco in occasione della Seconda guerra d’indipendenza.
Alla fine manovre più diplomatiche che militari portarono all’annessione del Veneto: ceduto da Francesco Giuseppe a Napoleone III e da questi a Vittorio Emanuele II dopo un plebiscito farsa. Poiché il governo austriaco si era già rassegnato – già prima dell’inizio delle ostilità – a una simile soluzione, che però il governo italiano non aveva accettato, la Terza guerra d’indipendenza fu una guerra inutile sia per i piani dei Savoia sia per i destini dei popoli d’Italia. Essa non fu, tuttavia, senza conseguenze sotto altri punti di vista. Il governo italiano si era fortemente indebitato per preparare la guerra nella speranza che il nemico vinto avrebbe poi pagato pesanti indennità ai vincitori – come era già capitato al Regno del Piemonte, sconfitto, al termine della Prima guerra d’indipendenza. Quei debiti contratti con gli esponenti del mondo finanziario, su tutti i Rothschild e gli Hambro, andavano ora onorati: << L’Italia intera, quell’Italia contadina che raccoglieva la stragrande maggioranza della popolazione, ora stava tutta piangendo a dirotto dovendo pagare il conto delle costose spese militari sostenute per realizzare quel Risorgimento al quale era rimasta del tutto indifferente […] Cambray-Digny si era rivelato un così valido amministratore delle finanze della Real Casa che Vittorio Emanuele lo aveva imposto come ministro delle Finanze affinché risanasse anche le casse dello Stato […] Non potendo tassare i grandi patrimoni e le sinecure dei ceti privilegiati […] aveva alienato tutti i beni ecclesiastici ancora vendibili fino a quando non era intervenuto il Parlamento per fermarlo […] Ostinato comunque nel suo intento di raggiungere il pareggio del bilancio, raccolse altro denaro appaltando il monopolio dei tabacchi, come era già stato fatto per le ferrovie, a una società privata […] Nell’affare dei tabacchi, come era accaduto per l’alienazione dei beni ecclesiastici, oltre le banche straniere erano entrati in gioco anche i primi capitalisti italiani, fra i quali emergeva il livornese Pietro Bastogi, che già si era assicurato l’appalto delle ferrovie meridionali corrompendo deputati e giornalisti. Ma l’auspicato pareggio era ancora lontano e da vendere non c’era più nulla […] Il fantasioso ministro fiorentino […] non esitò infatti a sfidare l’impopolarità aumentando ancora le vecchie tasse e inventandone addirittura di nuove. Oltre all’imposta sulla successione […] quella sulle finestre […] ma il colpo di mano più odioso di Cambray-Digny fu il ripristino della << tassa sul macinato >> […] Contro questo << Governo non atto ad altro che a far l’esattore delle tasse >> come scrisse in quei giorni Garibaldi […] si scatenò la rabbia dei contadini che si sentivano provocati da quell’implacabile contatore posto davanti ai loro occhi che li obbligava a pagare in anticipo il misero frutto del loro sudore. Anche i mugnai, trasformatisi in forzati esattori, si unirono alla protesta che esplose dovunque […] La repressione, naturalmente, fu durissima. Il governo non esitò a proclamare i consueti stati d’assedio e affidò i pieni poteri al generale Cadorna il quale, per domare i rivoltosi di Parma, Reggio, Modena e Ravenna, non esitò a far scendere in campo l’esercito con il tragico risultato che rimasero sul terreno 250 dimostranti morti e un migliaio di feriti >> 31 .
Torniamo ora indietro all’ 8 ottobre 1859, quando a Torino, con la benedizione del “fratello in spirito” Cavour – rimasto scottato dalla recentissima Seconda guerra d’indipendenza, di cui si è detto – viene fondata la Loggia Ausonia: nasce così la massoneria contemporanea. Essa si ramifica rapidamente su tutta la penisola assorbendo precedenti società occulte o paramassoniche già esistenti e presenti spesso da lunga data. Appena costituita la massoneria italiana si pone sotto l’obbedienza del Grande Oriente di Francia. Secondo la descrizione che ne fa lo storico della massoneria Enrico Nassi << i motivi sono essenzialmente tre:
1.    quella francese è la massoneria più laica e compatta d’Europa. Teorizza la caduta del potere temporale dei papa […] Lo stesso Cavour, con linguaggio rituale, considera la Franc-maconnerie una << pietra angolare >> della sua strategia diplomatica. Non a caso il suo ambasciatore a Parigi è Costantino Nigra, un maestro elevato alla dignità del 33° grado del Rito adottato dai francesi;
2.    più di quella inglese, la comunione francese ha una consolidata tradizione di dinamiche interferenze col modo profano della politica, delle armi e della finanza […]
3.    i templi sono stipati di banchieri in grembiule di pelle e maglietto. Questo è un fatto di grande significato se si pensa che il sistema bancario francese, dominato dalla casa Rothschild, gran culla di venerabili << 33 >> , aveva l’egemonia assoluta del mercato europeo dei capitali dal quale dipendeva il regime finanziario del regno sabaudo. Stando all’archivio storico della Banca d’Italia, il debito estero sabaudo, contratto e gestito dai francesi, a cavallo del 1860 ammontava a 3 miliardi contro i nove del prodotto interno lordo: era un rapporto molto alto per quel tempo; ed oggi, rifacendo il verso al linguaggio massonico, possiamo considerarlo la << pietra angolare >> del debito pubblico che nel giro di centoventi anni è diventato una voragine. Non è tutto: la casata dei Rothschild – consociata a Londra con il gruppo degli Hambro, altra storica culla di << 33 >> - in quel periodo controllava l’83% dei pagamenti all’estero dei titoli di Stato e la quasi totalità delle vendite immobiliari sul mercato europeo, compresi i beni che venivano progressivamente espropriati agli ordini ecclesiastici. Ma soprattutto garantiva i prestiti esteri che consentivano a Cavour di portare avanti >> i suoi ambiziosi piani 32 .
Incrociando le informazioni di De Marco, Petacco e quelle di Nassi, si giunge alla paradossale conclusione che le guerre d’indipendenza abbiano avuto due obbiettivi: per prima cosa arricchire la finanza sionista mediante l’indebitamento degli Italiani; e inoltre quello di svendere l’intero patrimonio immobiliare della Chiesa cattolica in Italia, secondo un copione già visto al tempo della Rivoluzione francese. Attraverso le guerre d’indipendenza si affermò anche il potere di una nuova classe sociale, che andava a sostituire il clero e l’antica nobiltà: uomini politici corrotti, avidi banchieri e faccendieri della peggior risma – tutti riuniti all’interno dei templi massonici – assunsero il ruolo di esattori per conto della finanza sionista rappresentata dai già citati Rothschild, Hambro, Perrier e così via. Attraverso una gestione scriteriata della cosa pubblica, i nuovi tecnocrati tanto cari a Saint-Yves d’Alveydre avrebbero perpetuato di generazione in generazione la schiavitù del popolo italiano nei confronti dei banchieri stranieri.
Leggiamo ora l’analisi di Marco Pizzuti: << per conoscere veramente il senso del Risorgimento italiano è indispensabile innanzitutto riflettere sul comune denominatore che lega tutti (con rare eccezioni) i suoi principali protagonisti […] Gian Domenico Romagnosi, Giuseppe Mazzini, Francesco Crispi, Adriani Lemmi (banchiere massone del Risorgimento coinvolto nel famoso scandalo della Banca Romana del 1892), Camillo Benso Conte di Cavour, Filippo Buonarroti, Massimo D’Azelio, Luigi Luzatti (banchiere di origine ebraica che rivestì le più alte cariche di governo), Goffredo Mameli (di cui ci resta il famoso inno nazionale), Ernesto Nathan (Gran Maestro massone e finanziere ebreo), Silvio Pellico, Nino Bixio, Bettino Ricasoli, Guglielmo Oberdan, Vittorio Emanuele Orlando e Giuseppe Garibaldi furono tutti illustri membri della massoneria […] Ma la massiccia occupazione dei ruoli di potere da parte degli uomini della confraternita non si limitò solo all’arena politica e riguardò ogni aspetto sociale e culturale nazionale […] Giovanni Pascoli, Ugo Foscolo, Gabriele D’Annunzio, Giosuè Carducci, Vincenzo Monti, Niccolò Paganini, Carlo Pisacane e Vittorio Alfieri, tanto per citare solo alcuni tra coloro che hanno indossato ufficialmente il rituale grembiule massonico >> 33.
Pur partendo da dati diversi da quelli di De Marco anche Pizzuti si allinea alla nostra tesi secondo la quale il Risorgimento sarebbe un esperimento studiato a tavolino dagli “Illuminati”. Sentite le parole di Pizzuti a proposito di Cavour: << si può ragionevolmente supporre che tutta la politica savoiarda di cui era portavoce venisse decisa da personaggi come lord Palmerson (insigne massone) e A. Pike (Gran Maestro dell’ordine dedito al culto luciferiano gnostico e promotore dell’odio razziale) >> dal momento che << tutte le logge nazionali sono coordinate “dall’alto” (dai soliti finanzieri invisibili) per seguire un filo comune. Secondo l’Acacia Massonica Camillo Cavour […] prendeva direttamente ordini dai leader della fratellanza internazionale. Non può quindi apparire un caso il fatto che Cavour avesse stretti rapporti con i Rothschild e si fosse formato politicamente proprio in Inghilterra, il paese dove venne introdotto ai segreti dell’associazione di cui entrò a far parte in seguito >> ovvero la massoneria 34 .
La massoneria era un fenomeno sociale e politico che abbracciava l’intera civiltà occidentale dall’Europa al continente americano. Nel corso della nostra ricostruzione abbiamo però visto che nel XIX secolo il mondo finanziario internazionale impiegava la Contro-Chiesa come filtro tra sé stessa e il mondo della massoneria dalla quale provenivano quei “bassi iniziati” che avrebbero schierato le armate di tecnocrati necessarie a governare gli Stati moderni – ovvero a manipolare le masse – e la complessa macchina dell’economia capitalistica – ovvero a gestire il conflitto tra capitale, produzione e forza lavoro. A un’analisi superficiale parrebbe quasi che questa dimensione sia assente nella Storia del Risorgimento, trovandosi esso schiacciata tra l’ateismo militante della massoneria italiana e il fanatismo antimassonico della Chiesa cattolica. In realtà un filtro, uno schermo esiste anche in questo caso: la sua importanza, nei disegni degli “Illuminati”, è tale che se non ci fosse sarebbe stato necessario inventarlo. Come appunto fu. Stiamo parlando del “movimento carbonaro”.
Seguendo la ricostruzione di Pizzuti –  che si fonda, a quanto ci pare di capire, sull’autorità di Epiphanius – si può dire  che << La Carboneria […] sarebbe stata fondata nel 1815 dal massone genovese Antonio Maghella proprio per portare avanti lo stesso programma politico della rivoluzione francese. Organizzata in “Vendite” su vari livelli, secondo il classico schema massonico, essa operava in stretto contatto con i supremi consigli del 33° grado del Rito Scozzese, il cui vertice si chiamava appunto “Alta Vendita”, un collegio internazionale composto da quaranta membri. Nel 1847 si riunì a Strasburgo un Convegno Internazionale delle massonerie per preparare il piano rivoluzionario che avrebbe condotto alla nascita di una confederazione europea. Nel 1848 le frange insurrezionaliste passarono all’azione guidando e fomentando rivolte a Parigi, Berlino, Vienna, Praga, Milano, Venezia, Napoli e Roma. Ma è bene sapere che sia Giuseppe Mazzini quanto l’intero ordine dei carbonari appartenevano agli Illuminati di Baviera >>  35 .

A questo punto Pizzuti pare perdere il bandolo della matassa facendo un vago accenno alla fede di Mazzini nella reincarnazione, lì erroneamente attribuito a un non ben identificato culto massonico. In realtà nel XIX la massoneria si era distaccata dalla sua originaria dimensione spirituale – “magica” e “alchemica” direbbe Giorgio Galli – pur conservando intatto l’antico patrimonio simbolico e rituale 36 . Proprio per questo si aprirono gli spazi di manovra per l’azione sovversiva di una vera e propria Contro-Chiesa. La reincarnazione è un principio religioso proprio delle religioni indiane: innanzitutto l’Induismo e il Buddismo, ma anche la Società Teosofica di madame Blavatsky. Erano queste le misteriose credenze religiose di Mazzini? Ancora Pizzuti, quasi inavvertitamente, ce lo conferma parlando della collaborazione tra Mazzini e Anne Beasant, che succedette alla Blavatsky alla guida della Società Teosofica. 
Un altro accenno è degno di essere maggiormente investigato: << Mazzini inoltre aveva come stretto collaboratore l’israelita Henry Mayer Hyndman, un marxista a capo dell’associazione chiamata The National Socialist Party >> 37 . Poiché l’israelita Hyndman figura tra i fondatori della Fabian Society, uno dei centri motori della cospirazione comunista 38 , possiamo dunque additare nelle società carbonare quel secondo livello occulto che si celava dietro alla massoneria italiana. Ciò parrebbe confermato, indirettamente, dalla ben nota amicizia di Mazzini col grande “illuminato” americano Albert Pike.
Resta sempre sullo sfondo, naturalmente la figura inquietante di James Rothschild, la cui avidità di denaro era pari alla vanagloria di Camillo Benso conte di Cavour e re Vittorio Emanuele II. Ne fece le spese anche il Regno delle due Sicilie, che era la preda più grossa su cui quella banda di banditi, ora nominati per nome e cognome, potessero mettere le mani. Marcello d’Orta scrive: << Alla vigilia dell’Unità d’Italia, circolavano nella penisola 667 milioni di ducati, così divisi: 22 in Lombardia, nel Parmense, nel Modenese e a Venezia, 85 in Toscana, 90 negli Stati Pontifici, 27 nel Regno sardo-piemontese, e 443 nel Regno delle Due Sicilie. Dopo l’impresa di Garibaldi, la quasi totalità della ricchezza “napoletana” andò al Piemonte, e Camillo Benso conte di Cavour potè saldare i suoi enormi debiti con i Rothschild. Il Regno borbonico fu depredato di quasi tutte le sue sostanze (il Banco di Napoli aveva una riserva aurea superiore di quasi quattro volte a quelle di tutte le altre banche italiane messe insieme) >> 39 .
Nel 1860 tanto per Cavour quanto per Vittorio Emanuele II era dunque questione di vita o di morte impadronirsi dell’oro borbonico. Per evitare che la situazione degenerasse in un conflitto internazionale l’intera operazione sarebbe stata gestita dal Grande Oriente d’Italia. Proprio per questo Enrico Nassi definisce la spedizione dei Mille come la << “prima grande interferenza profana” di una lobby massonica nella storia d’Italia, ideata e gestita nel segreto del tempio >> 40 . Questo storico della massoneria, già più volte citato nel nostro lavoro, cerca di ricostruire sulla base dei << si racconta >> e di << un’esigua manciata di documenti >> il ruolo avuto dal Grande Oriente d’Italia nell’avventura garibaldina depurandola dalle scorie di una distorta storiografia, che fu immediatamente fabbricata dalle élite al potere come mito autocelebrativo. Scrive Nassi che l’azione del GOI << si è snodata lungo quattro direttive:
-          la mediazione dei contrasti ideologici, risolta con l’emarginazione politica e militare dell’ala più intransigente, repubblicana e anticlericale […] Alla riuscita dell’operazione contribuì la cooptazione nel vertice massonico di alcuni mazziniani iniziati durante l’esilio a Londra e degli uomini più in vista nella “Società nazionale” di Daniele Manin, disposti a schierarsi con casa Savoia purché facesse sua la causa italiana […] non indifferente, infine, l’appoggio dei quadri più dinamici della borghesia imprenditoriale, che in un mercato interno senza frontiere vedevano la maggior occasione di sviluppo e di allineamento dell’Italia allo standard dei paesi più avanzati d’Europa;
-          la raccolta dei << mattoni >>, realizzata con significative (ma scarse) offerte volontarie e alimentata nel tempo da un buon flusso di finanziamenti bancari e di beni e servizi da parte delle maggiori industrie cotoniere lombardo-piemontesi, dei costruttori di strade e ferrovie e di fabbricanti d’armi. Questo è stato il lavoro più facile, giacché a favorirlo, oltre alla passione civile che legava i quadri massonici e quelli della classe dirigente, c’era il governo, ufficialmente contrario all’impresa, ma largo di promesse sul piano delle forniture e delle commesse statali. Mancavano le navi, ma l’armatore Raffaele Rubattino, << patriota genovese iniziato all’Arte Reale >>, provvide a fornire il Piemonte e il Lombardo, le due navi più veloci di quelle avute in concessione dal governo;
-          un’azione diplomatica parallela a quella del governo per stabilizzare l’adesione francese. Ma in particolare per evitare contraccolpi sul versante inglese; e questo è un altro colpo andato a segno come dimostra l’atteggiamento assunto dalla flotta della regina Vittoria nel momento più cruciale dell’impresa garibaldina […]
-          una costante pressione sullo stato maggiore dei Mille, quasi al completo di obbedienza massonica, per impedire che Garibaldi, galvanizzato dal successo dell’impresa, mettesse il governo di fronte al fatto compiuto di una marcia su Roma. Questa deve essere stata la mediazione più difficile […] >> 41.
A proposito della posizione britannica nei confronti della spedizione dei Mille Nassi cita l’aneddoto della Royal Navy, postasi a schermo tra i garibaldini che stavano sbarcando a Marsala e la flotta borbonica: quest’ultima avrebbe potuto spazzare via gli invasori con poche cannonate, ponendo immediatamente fine all’avventura di Garibaldi ma fu trattenuta, al momento decisivo, dal timore di provocare un grave incidente diplomatico con la Gran Bretagna. Ma si trattava di ordini provenienti dal Governo inglese o da una qualche realtà di potere occulta con sede in Gran Bretagna? Secondo Aldo Mola << la spedizione dei Mille si svolse dall’inizio alla fine sotto tutela britannica o, se si preferisce, della massoneria inglese >> 42 . Le prove parrebbe averle trovate Giulio Vita, che afferma: << studi in archivi e su periodici di Edimburgo mi hanno permesso di rilevare e confermare il versamento a Garibaldi di una somma veramente ingente, durante la sua breve permanenza a Genova, prima che la spedizione sciogliesse le ancore. La somma riferita con precisione è di tre milioni di franchi francesi. Questo capitale, tuttavia, non venne fornito a Garibaldi in moneta francese, bensì in piastre d’oro turche >> 43 . Ecco quindi come fu possibile al Grande Oriente d’Italia di integrare le magre offerte dei “fratelli”, i << mattoni >> di cui ci parlava il Nassi.
L’intera spedizione dei Mille si risolse così in una colossale farsa, proprio come si rivelerà in seguito la Terza guerra d’indipendenza. Impressionante è la testimonianza del cronista di parte borbonica Giacinto De Silvio (1814-1867), che denunciava << la trama di imbrogli e corruzioni con cui inglesi e piemontesi si comprarono tutto il governo di Ferdinando II, compreso il primo ministro Liborio Romano e larga parte degli stati maggiori militari e della burocrazia, che di fatto disarmarono un esercito e una marina tra le più potenti della penisola di fronte a mille volontari disomogenei e male armati >> 44 . Tra questi vi era il capitano di fregata Guglielmo Acton, che a Marsala nel 1860, come ufficiale borbonico, si rifiutò di sparare sui garibaldini e poi cambiò bandiera, partecipando al cannoneggiamento nel 1861 dell’ultima roccaforte dei Borboni: Gaeta. Acton farà poi una brillante carriera nella Regia Marina, che avrà il suo fiore all’occhiello nella vergognosa sconfitta di Lissa. Che dire poi di quel generale Landi che a Calatafini avrebbe potuto spazzare via in cinque minuti i garibaldini, ma che inspiegabilmente ordinò la ritirata? << Si scoprì in seguito che il generale Landi aveva già in tasca una fede di credito, cioè un assegno con cui qualcuno aveva, come dire, “agevolato” il suo passaggio alla causa dell’unità d’Italia. L’ininterrotta catena di successi di Garibaldi si spiega anche così. A differenza dei sottufficiali e dei soldati di Francesco II, lo stato maggiore dell’esercito borbonico con poche eccezioni si era già fatto corrompere prima dell’arrivo dei volontari garibaldini. Emissari piemontesi hanno da tempo preparato il terreno allo sbarco in Sicilia avvicinando ufficiali e funzionari borbonici. Hanno loro offerto promozioni nel futuro stato sabaudo e ingenti ricompense in piastre turche, una valuta all’epoca facilmente convertibile e usata in tutti i porti del Mediterraneo >> 45 .
Il saggista Lorenzo Del Boca precisa che la piastra turca era la moneta commerciale di allora, ma era anche la << moneta delle tangenti, perché impediva di indicare da dove venivano questi soldi e quindi quale malaffare c’era dietro >> 46 .
 Di certo il denaro investito nella spedizione dei Mille fu un ottimo affare secondo lo storico e saggista Luciano Salera: << Quando è stata fatta l’unità d’Italia il nuovo capitale monetario, il nuovo monte di denaro liquido in monete d’oro che andò a formare il patrimonio della nuova Italia, per oltre il 70% era formato da denaro che veniva dal Regno delle Due Sicilie >> 47 .
Una volta conseguita l’unità politica della Penisola, la già ricordata Loggia Ausonia di Torino dovette accelerare i tempi per condurre a unità anche le varie frange della massoneria italiana. A questo punto, pur calibrando attentamente le parole, Nassi rivela un aspetto di grande importanza per comprendere la differenza tra la massoneria nostrana e quella dei Paesi anglo-sassoni: << Quello che mancava all’Ausonia era un contesto esoterico proprio dell’Arte Reale, benché nelle Logge fossero d’obbligo la gestualità e il linguaggio, l’abbigliamento, gli strumenti e i gioielli rituali importanti da Parigi e da Londra. Oppure reinventati sull’onda della memoria e di una manualistica mal tradotta e comunque troppo ermetica: cioè un cocktail di modelli di cui nessuno, o quasi, conosceva il valore e il significato simbolico. Di conseguenza la ritualità aveva una sola funzione pratica: quella che gli psicologi indicano come un’esclusiva forma di assoggettamento del neofita, tanto più forte e vincolante quanto più intenso è il mistero esoterico della cerimonia d’iniziazione e della successiva obbedienza >> 48 . Da qui il timore degli spiriti più inquieti che gli interessi profani finissero per prevalere all’interno del Tempio, come poi sarà.
Un altro problema sul tavolo era la ricerca di una figura autorevole a cui affidare le redini del Grande Oriente d’Italia e per mezzo del quale identificare, in modo ancora più forte, massoneria e Risorgimento. Serviva un testimonial, come diremmo oggi, e perciò fu fatto un casting. Il primo candidato ad essere scartato fu Garibaldi, che malgrado la fresca promozione al 33° grado era considerato imprevedibile e ingovernabile. Il “fratello in pectore” Cavour, ormai vecchio e malato, declinò l’invito , sostenendo piuttosto la candidatura di Costantino Nigra. La sua gran maestranza durò poco e gli successe il siciliano Filippo Cordoba. Vero e proprio tecnocrate nel senso descritto da Saint-Yves d’Alveydre, Cordoba viene descritto dal Nassi come un recordman << per l’incredibile quantità di cariche e di strutture operative che gestiva in contemporanea, dominando una piramide di potere politico-amministrativo di proporzioni gigantesche >> 49 .
Poiché al peggio non c’è mai fine, a Cordoba succederà Adriano Lemmi che merita una trattazione separata.


Note
1.    

1. I passi dell’opera di De Marco, Revisione della Storia dell’Unità d’Italia di seguito citati sono stati consultati su http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Personaggi/Cavour01.htm in data 30/07/205. 
2. Ibidem
3. L’espressione “personale straniero di rinforzo” qui utilizzata è stata presa in prestito da Solange Manfredi, autrice del libro Psyops.
4. De Marco, op. cit. 
5. Ibidem
6. E. Nassi, La massoneria in Italia, Newton, Roma 1994, p. 25
7. De Marco, op. cit.
8. Ibidem.
9. Ibidem.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ibidem.
14. Ibidem.
15. Ibidem.
16. Ibidem.
17. Ibidem.
18. Ibidem.
19. Ibidem.
20. E. Cernuschi, Battaglie sconosciute. Storia riveduta e corretta della Regia Marina durante la Grande Guerra, In edibus, 2014, pp. 146-147
21. De Marco, op. cit.
22. A. Petacco, O Roma o morte. 1860-1870: la tormentata conquista dell’unità d’Italia, Mondadori, 2010.
23. Ibidem, p. 92-93.
24. Ibidem, p. 91
25. Ivi.
26. M. Pizzuti, Rivelazioni non autorizzate. Il sentiero occulto del potere, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2013, p. 87.
27. A. Petacco, op. cit. , p. 94.
28. Ibidem, p. 102.
29. Ivi.
30. E. Cernuschi, Battaglie sconosciute. Storia riveduta e corretta della Regia Marina durante la Grande guerra, In edibus, pp. 20-21.
31. A. Petacco, op. cit. , pp. 131-134 
32. E. Nassi, op. cit. , pp. 25-26.
33. M. Pizzuti, Rivelazioni non autorizzate. Il sentiero occulto del potere, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2013, pp. 79-80
34. Ibidem, p. 80. Il riferimento ad Acacia Massonica si trova a p. 81 del numero febbraio / marzo 1949.
35. Ibidem, p. 83.
36. In realtà qui Pizzuti sembra fare confusione tra le idee gnostiche di quel mondo alchemico e magico da cui è figliata la massoneria e il vero e proprio culto gnostico che accomuna i vari elementi della Contro-Chiesa.
37. M. Pizzuti, op. cit. , p. 83
38. Epiphanius, Massoneria e sette segrete. La faccia occulta della storia, Fondazione Testimonium, pp. 177 e sg.
39. M. Pizzuti, op. cit. p. 83
40. E. Nassi, op. cit. , p. 28.
41. Ibidem, pp. 30-31.
42. Citato in M. Pizzuti, op. cit. , p. 81
43. Ivi.
44. Ibidem, pp. 83-84
45. Ibidem, p. 85.
46. Ibidem, p. 86.
47. Ivi.
48. E. Nassi, op. cit. , p. 33.
49. Ibidem, p. 35

L'ARTICOLO CHE AVETE LETTO PROVIENE DAL SAGGIO MUSSOLINI E GLI "ILLUMINATI" DI ENRICO MONTERMINI.
L'OPERA E' DEPOSITATA PRESSO LA SIAE ED E' TUTELATA DALLE NORME A DIFESA DEL DIRITTO D'AUTORE.



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