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lunedì 2 novembre 2015

Il golpe massonico.

Nel 1847 Mazzini incaricò un giovane livornese di organizzare a Costantinopoli un gruppo di patrioti a lui fedele e di raccogliere fondi per i suoi piani cospirativi. Questo giovane si chiamava Adriano Lemmi (1822-1906).
Negli anni successivi troviamo Lemmi implicato in ogni genere di complotto ordito dal Mazzini: nel 1849 organizza l’imbarco dei volontari per difendere la Repubblica romana, nel 1853 è tra i promotori dei moti di Genova, nel 1857 è il finanziatore della spedizione di Piscacane e nel 1860 è tra gli organizzatori della spedizione dei Mille. Una simile carriera da cospiratore gli varrà la definizione di << banchiere della rivoluzione italiana >> coniato da Guerzoni. Divenuto amico di Garibaldi, resta coinvolto nell’oscuro affare delle ferrovie meridionali a cui si è accennato nel precedente capitolo.
Lemmi godette della protezione di Mazzini, che rivestiva un ruolo di primo piano all’interno del sistema occulto della Contro-Chiesa. E’ significativo che il banchiere livornese ricevesse incarichi di altissimo livello in ambito finanziario all’interno della cospirazione carbonara prima ancora di approdare alla massoneria nel marzo 1877. Anche le modalità di adesione alla massoneria erano eccezionali: vi entrò infatti come membro della Loggia di Propaganda, una speciale Loggia del G.O.I. che raccoglieva i membri dell’establishment politico, economico e culturale del Regno d’Italia. Pare addirittura che l’ideatore di questa struttura occulta fosse lo stesso Lemmi: << Segretezza, lealtà e sinergismo rappresentavano insomma un trinomio di difficile simbiosi. Per risolvere il teorema, dunque, non restava che ricorrere a strumenti non istituzionali, come quello di coprire un’intera Loggia, lasciando in esclusiva al Gran maestro la responsabilità della << tegolatura >> protettiva e il potere dell’iniziazione << sul filo della spada >>. La soluzione era ardita, ma Lemmi seppe ben presentarla: così, con il determinante appoggio di Crispi, nel marzo 1877 veniva creata a Roma la << Loggia di Propaganda Massonica >> , madre di quella del venerabile Licio Gelli, detta poi << P2 >> per comodità di linguaggio. La massoneria aveva infine trovato una sede istituzionale in cui trattare in segreto gli interessi profani attraverso riunioni – o scambi di messaggi subito bruciati – tra singoli affiliati o gruppi di specializzazione. Sino alla caduta di Crispi, questa Loggia ha rappresentato il maggior centro di potere italiano >> 1.
La carriera massonica di Lemmi è troppo rapida per non far credere che questa militanza servisse da copertura per celare i suoi mandanti e i propositi di loro. Infatti egli, ancora neofita, viene subito chiamato a far parte della commissione finanziaria del G.O.I. e poco dopo (maggio 1879) viene eletto Gran tesoriere. Non basta nemmeno l’amicizia stretta con l’eroe nazionale Giuseppe Garibaldi e con l’astro nascente della politica Francesco Crispi, entrambi insigniti del grado << 33 >> della massoneria, a spiegare una carriera così sfolgorante: a quanto pare si guadagnò il favore di numerose Logge provvedendo di tasca propria – o così almeno riuscì a far credere – al pagamento delle quote associative arretrate. Come commentare l’episodio? Simonia in salsa massonica? Probabilmente sì. Certo dietro il banchiere livornese vi erano sponsor molto “convincenti”. Intendiamo dire, in altre parole, che Lemmi era un uomo della finanza internazionale che Mazzini aveva messo a diretto contatto con gli “Illuminati” e con la Contro-Chiesa. Dopo aver finanziato il Risorgimento gli “Illuminati” – in testa a tutti: Rothschild, Hambro, Perier e Oden – miravano ora a consolidare la propria influenza sull’Italia unitaria in vista di nuovi affari, di cui parleremo a breve. Per fare questo essi necessitavano di schiere di tecnocrati addestrati ovvero dei bassi iniziati di cui scriveva, in quegli stessi anni, Saint-Yves d’Alveydre. Ecco quindi la convenienza ad appaltare alla massoneria locale la gestione della cosa pubblica, dell’economia e della cultura. Ecco quindi la necessità di mettere un proprio uomo di fiducia alla guida dell’ordine. Poiché gli affari, piuttosto la fede, cementavano l’istituzione massonica italiana, fu scelto un banchiere: egli era l’uomo giusto per corrompere un’istituzione che era in vendita al migliore offerente. Per queste ragioni Lemmi viene eletto Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia il 17 gennaio 1885. Codesta maestranza, durata ininterrottamente fino al 1896, lascerà un’impronta indelebile nella storia della massoneria.
Scrive Nasi: << il banchiere Lemmi passava, e non senza ragione, come un mago della finanza e dell’organizzazione. Collegato con le maggiori centrali finanziarie d’Europa, aveva una rete di relazioni che pochi in Italia potevano vantare. Era ascoltato a corte e nel governo. Insomma si muoveva tra affari e politica come una sorta di eminenza grigia: ed è proprio per questo motivo che nel 1885 le Logge gli affidarono la riorganizzazione del Grande Oriente e il risanamento delle finanze >> 2.
Di fronte alla profonda crisi del G.O.I. , dimostratosi incapace di mediare tra le due anime storiche della comunione – quella democratico-rivoluzionaria e quella liberale-conservatrice – Lemmi fa una netta scelta di campo e in appena due anni cambia volto alla massoneria: espelle i leader della Sinistra rivoluzionaria e sposta in alto la base sociale dell’organizzazione con l’iniziazione dei quadri medio-alti dei ceti emergenti. In questo modo la massoneria si afferma come occulto << partito della borghesia >> secondo la celebre definizione di Gramsci.
Secondo Fulvio Conti << Egli concepì infatti la massoneria come uno strumento per orientare l'opinione pubblica, condizionare il ceto politico e mobilitare la società civile al fine di rafforzare lo Stato nato dal Risorgimento, emarginare la Chiesa e le organizzazioni cattoliche, realizzare una serie di riforme sociali e politiche di schietta matrice laica e progressista >> 3.
Mario Celi afferma che Lemmi << fu il primo a intuire l’importanza di avere a propria disposizione una loggia coperta per manovrare la finanza pubblica stando dietro il palcoscenico. Il suo programma massonico era semplice: via dalle logge i poveracci e i pensatori, l’obbiettivo doveva essere la conquista del potere: “Chi è al governo degli Stati o è nostro fratello o deve perdere il posto”. La stessa filosofia che un secolo più tardi avrebbe ispirato il << fratello >> Licio Gelli >> 4.
Durante la maestranza di Lemmi erano addirittura trecento i parlamentari iscritti alle Logge. Il loro apporto fu decisivo per il golpe silenzioso attuato dall’ordine. Come scrive Nassi, << non è quindi casuale che, nel 1889, nel primo governo Crispi si contassero, oltre al premier, almeno cinque ministri e nove sottosegretari affiliati alla massoneria. Lo sbarco nel governo, che Adriano Lemmi si era posto come obbiettivo dalla sua iniziazione, è un successo che forse non ha precedenti nella storia d’Europa. Tuttavia, come corpo mistico di una fratellanza universale, la massoneria italiana tocca il suo livello più basso >> 5. Nasce così il primo e unico governo dichiaratamente massonico della Storia d’Italia, guidato per di più da un venerabile << 33 >>, e posto completamente agli ordini del Grande Oriente d’Italia. Dietro il quale è appena possibile individuare i contorni di un altro potere occulto, la grande finanza cosmopolita.
Il golpe massonico era quindi cosa fatta: << l’eccessivo appiattimento di Adriano Lemmi (e della Loggia coperta) sulla politica e sulla leadership di Crispi ha infatti come risultato un progressivo declassamento delle ambizioni di supremazia morale e un massiccio processo di secolarizzazione dei templi. In conclusione non decade solo l’antica carica di spiritualità, ma il Grande Oriente, di riflesso, come si è detto, non sarà più neppure, come al tempo del Risorgimento, un dinamico << centro di mediazione d’interessi e di contrasti >>. Diventa piuttosto un braccio operativo >> 6.
Il modello di Crispi era il cancelliere tedesco Otto von Bismark. Proprio come lui lo “statista” siciliano intendeva governare il Paese con piglio autoritario e si poneva ambiziosi obiettivi, << sfidando, all’occorrenza, pure il potere del papa e delle più agguerrite frange del radicalismo libertario >> 7. Anziché partire dai tanti problemi della popolazione, Crispi vedeva nella gente comune uno strumento per cogliere un fine più alto: un ideale astratto che non poteva non essere suggerito dai poteri forti sulla base di un calcolo di interesse. Il suo progetto era trasformare il Regno d’Italia in una grande potenza sullo scacchiere internazionale, proprio come Bismark aveva fatto con la Prussia.
Il primo punto del suo programma consisteva in un’operazione culturale ossia nell’eludere il problema dell’identità nazionale tra i popoli della Penisola che il progetto mondialista aveva unito a forza. Per “fare gli italiani” Crispi intendeva nazionalizzare le masse. Occorreva ottenere << il consenso delle classi medie >> attraverso << un inedito culto della patria-Stato e quindi con una nuova interpretazione dei valori e dei simboli più aggreganti del Risorgimento. In sintesi, si trattava di riscrivere settant’anni di storia per caratterizzare in chiave nazionalpopolare tutte le celebrazioni del processo unitario >> 8. L’ubriacatura nazionalista serviva ad eludere anche un altro problema: quello dell’educazione civica del cittadino, della sua preparazione ad agire come membro di una comunità di individui liberi, uguali e responsabili: la soluzione proposta era quindi un rigido conformismo agli slogan, ai simboli, alle immagini e ai rituali politici inventati di sana pianta dai discepoli di Lemmi. Un altro aspetto era il processo di revisione storica che vedeva nel “garibaldino” Crispi l’ultimo sopravvissuto di una generazione di eroi, il momento di sintesi delle diverse anime del Risorgimento. Premesso che la Storia la scrivono i vincitori, l’aspetto anomalo dell’intera vicenda risiedeva nel fatto che << di questo processo di revisione << era a un tempo protagonista, narratore e giudice >> un leader politico, un moderno Cesare (quale appunto Crispi voleva essere) >> 9. Probabilmente Mussolini sarà il più attento discepolo di Crispi.
Ricapitolando: il Grande Oriente d’Italia sotto la maestranza di Lemmi sacrificava i propri valori spirituali – ovvero il contatto con le sue radici magico-alchemiche – alla tentazione del potere; ma contemporaneamente proiettava verso la società civile i riti e i simboli di una religione civile, inventata a tavolino e contrapposta alla religione cattolica e all’ideologia marxista. I templi massonici diventavano così il sancta sanctorum del potere, inaccessibile ai profani, e da essi uscivano i sacerdoti che predicavano la nuova dottrina del nazionalismo.
Orchestrando il consenso con questi metodi, i tecnocrati formati dal Grande Oriente d’Italia tentavano di mobilitare le masse per << trasferire al popolo il potere d’iniziativa nella costruzione e nella gestione dello Stato prima ancora che il ciclo unitario si concludesse con la liberazione di Trento e Trieste; ben consapevole, ad ogni modo, che ciò andava fatto a scapito del primato di casa Savoia e a tutto vantaggio delle punte più avanzate della borghesia e dell’ala moderata del movimento operaio. In definitiva, la sua (di Crispi) era la proposta complessiva di un nuovo contratto sociale il cui fine era la trasformazione del paese, condizione chiave per ascendere al rango di grande potenza, forte e temuta nello scacchiere internazionale e infine rivale di rispetto nella corsa alle colonie, in Africa anzitutto >> 10.
Malgrado la formale alleanza con Berlino e Vienna, vi era il ricordo delle recenti guerre d’indipendenza e il problema delle “terre irredente” a turbare le relazioni con l’Impero Austro Ungarico. L’alleanza con l’antico nemico veniva quindi vissuta con imbarazzo dall’intera classe politica italiana, re Umberto compreso. Era venuta a mancare anche la tradizionale alleanza con la Francia, dal momento che le mire di Crispi si focalizzavano sulla Tunisia e il Corno d’Africa ambite anche dai francesi. Il venerabile “33”, allora a capo del governo, scatenò una guerra doganale nei confronti della Francia forse per motivi propagandistici: ne pagò dazio l’intero Paese, che subì un immediato crollo delle esportazioni. La sua politica estera, ambiziosa e bellicosa, veniva portata avanti con estrema rudezza fino al limite della degenerazione dei rapporti diplomatici. Ma a chi giovava tutto ciò? Non certo all’Italia, alla quale avrebbe fatto più comodo una politica più concentrata verso la crescita economica e i problemi sociali.
Nella seconda metà dell’Ottocento si stava verificando << una fase oggettiva di declino della piazza francese dove tradizionalmente lo Stato italiano collocava i suoi titoli e negoziava prestiti e investimenti >> 11. Cosa era accaduto? Il 15 novembre 1868 lo spregiudicato James de Rothschild, il finanziatore di Napoleone III e Cavour, era morto. Alla guida del ramo francese gli succedeva il figlio Alphonse. Due anni dopo la guerra franco-prussiana si concluse con il trionfo della Germania appena unificata da Bismark. Nel giro di poche settimane Napoleone III si era arreso con tutta l’armata a Sedan. Alphonse de Rothschild avrebbe potuto trattare con Bismark per la liberazione di Napoleone III, ma decise diversamente: probabilmente l’imperatore aveva fatto il suo tempo e poteva ora uscire di scena in previsione di nuove e ancor più vantaggiose speculazioni usuraie. Poiché i tedeschi si erano occupati del lavoro sporco, la Terza Repubblica poteva sorgere sulle ceneri dell’impero come una creatura del Barone Rothschild. Nella principesca residenza del banchiere alle Ferriers alloggiavano allora Guglielmo I, Bismark e i vertici dello Stato Maggiore tedesco. Accettarono di lasciare Parigi solo dopo il pagamento di duecento milioni di franchi, che Rotschild pagò per rientrare in possesso di casa sua, ma sotto forma di prestito al governo francese, che quei quattrini non li aveva. Dalla sua nuova residenza di Versailles Bismark chiese ora 31 miliardi franchi a titolo di risarcimento per le spese di guerra: << Alphonse trattò di persona e alla fine si accordò per la cifra, comunque esorbitante, di cinque miliardi. Quasi venticinque miliardi di euro attuali! […] anche se Alphonse riuscì ad assicurarsi buona parte di quel prestito (considerato il più grande affare finanziario del XIX secolo), le nuove banche per azioni, nate nel frattempo per contrastare il potere dei Rothschild, si riunirono in una coalizione per strappare la quota più alta possibile della somma da prestare. Così, secondo Bouvier, cominciò in quel 1873 il declino relativo dei Rotschild francesi. Che continuarono a crescere, ma più lentamente di prima [...] Quando tutto ebbe termine, le finanze della neonata Terza Repubblica francese erano ormai definitivamente nelle mani del Barone de Rothschild >> 12.
Gli affari dei Rothschild in Inghilterra erano di vecchia data: nel 1840 la “N.M. Rothschild & Sons” era già la principale fornitrice della Banca d’Inghilterra e dal 1852 otteneva la gestione della zecca reale. Nel 1857 Alphonse de Rothschild aveva rafforzato i legami tra il ramo francese e quello inglese della famiglia sposando la figlia di un cugino inglese di suo padre. I risultati non mancarono di farsi sentire. Infatti in tutta Europa furono racimolate colossali ricchezze, che attraverso la City di Londra venivano dirottate in ogni angolo del mondo ove la Gran Bretagna era disposta a fare da cane da guardia agli investimenti. Del resto a Londra il potere politico era nelle mani di Benjamin Disraeli, un avvocato israelita di fede cristiana, mentre quello finanziario nelle mani di Lionel Rothschild, che era a capo del ramo inglese del casato ed era compagno di partito di Disraeli. Fu Lionel Rothschild nel 1875 a dare assistenza finanziaria al Governo inglese, presieduto proprio da Disraeli, nell’acquisizione delle azioni del canale di Suez, che era stato inaugurato nel 1869. A tale atto fece seguito l’occupazione militare inglese dell’Egitto nel 1882. Con ciò gli investitori francesi, che erano stati i principali promotori della Compagnie universelle du canal maritime de Suez, divennero junior partner della finanza inglese e i Rothschild guadagnarono l’eterna benevolenza di Sua Maestà britannica.
Da quel momento il canale di Suez diveniva essenziale nella strategia britannica di controllo della rotta per le Indie. Di conseguenza l’establishment politico ed economico inglese aveva tutto l’interesse a contrapporre le ambizioni del neonato Regno d’Italia alla Francia, l’unica potenza europea che potesse competere con l’Inghilterra nella conquista di colonie e rotte commerciali.
Alla City di Londra i Rothschild entrarono in società con quel Cecil Rhodes, che fu il primo governatore della colonia del Capo e uno dei promotori della segretissima Fabian Society. Da questo incontro nacque la De Beers, che col supporto del Regno Unito si impadronì nella maniera più brutale dei giacimenti di diamanti del Sud Africa. Per effetto della spietata conquista delle repubbliche boere del Traansval e dell’Orange, la City di Londra alla fine dell’Ottocento si risollevò dal precedente declino. La De Beers mantiene tuttora il controllo del mercato internazionale dei diamanti.
I Rothschild investirono anche in molte miniere di rame, piombo, ferro e zinco. Ottennero inoltre il monopolio del mercurio in Spagna. Avevano messo le mani sui colossali giacimenti di nichel della Nuova Caledonia. Avevano fondato la Caspian and Black See Petroleum (Bnito), che poi diventerà la Royal Dutch Shell e sarà una delle famose “sette sorelle” monopoliste del mercato mondiale del petrolio: la Bnito controllava allora i pozzi di petrolio di Baku come abbiamo già visto. Così i Rothschild tendevano ad assumere il controllo del mercato mondiale delle materie prime all’interno del contesto della seconda rivoluzione industriale.
Alla luce di queste affermazioni non stupisce il declino della piazza francese, poiché i capitali erano investiti con maggior profitto altrove. Tutto ciò accadeva mentre la strategia di Crispi rendeva necessario << un imponente drenaggio di capitali, in Italia e all’estero, per realizzare un organico e ambizioso programma di investimenti teso a modernizzare il sistema-paese e l’apparato militare >> 13.  La crisi di liquidità in Francia rendeva però impossibile collocare, come era avvenuto in passato, i titoli di Stato italiani e ottenere nuovi crediti. Ad aggravare la situazione vi era poi << il grave stato di tensione nelle relazioni diplomatiche >> 14 tra Roma e Parigi di fronte al quale anche la massoneria era impotente. Tra il Grande Oriente di Francia e quello d’Italia esisteva ora una situazione di aperta competizione. Per Crispi ciò rappresentava << l’occasione per consumare un ribaltamento dell’alleanza con la Francia anche sul piano delle relazioni finanziarie. Era venuto il momento di costituire il secondo bastione di sostegno della strategia crispina: anche questo sarà il compito di Adriano Lemmi >> 15. Ecco quindi rientrare in scena il patriota rivoluzionario iniziato a Londra da Mazzini, il banchiere cosmopolita già in rapporti con le grandi centrali finanziarie internazionali e che probabilmente era stato infiltrato – proprio da queste ultime – al vertice del Grande Oriente d’Italia.
Scrive Nassi che tutto lascia supporre che << l’operazione sia cominciata con la messa a punto di una radiografia della situazione italiana, soprattutto perché a conoscere la verità dei numeri erano gli uomini di governo, gli alti funzionari e gli esperti del sistema bancario militanti dentro e fuori la Loggia coperta di propaganda massonica >> 16.
Da ciò sarebbe emerso un quadro assai negativo, poiché << la lira perdeva colpi nei confronti del franco e del marco; l’inflazione era salita dell’1,4 per cento; la bilancia commerciale, dopo i crolli vistosi del primo periodo della guerra doganale con la Francia, accusava perdite che si faceva fatica a riassorbire con le << partite invisibili >> delle rimesse degli emigranti e dei capitali esteri; il valore dei titoli di Stato sulle maggiori piazze finanziarie era sceso fra il 4 e il 3 per cento; l’offerta di obbligazioni, come la richiesta di anticipazioni, faceva raramente il pieno, mentre diventava sempre più complicato rinegoziare i prestiti dei primi anni Ottanta; e infine sui 488 milioni del disavanzo dello Stato gravava il buco degli interessi del debito pubblico stimato per l’anno in corso in 120 milioni di lire a semestre. A fronte di questo quadro, oltre al declino di Parigi, consolidata piazza per gli affari italiani, c’era la novità di una forte tendenza espansiva del sistema finanziario tedesco, quindi di nuove condizioni di competitività sul mercato internazionale dei capitali in cui, specie sul versante italiano, aveva sinora svolto un ruolo del tutto marginale >> 17.
Essendosi legato mani e piedi al sistema usuraio della finanza sionista, il Regno sabaudo si trovava ora nella condizione di dover rovesciare tutta la sua politica estera ed economica per evitare il default. Con un deficit annuo di 488 milioni, di cui 240 derivato dagli interessi sul debito pubblico, non esistevano altre strade che quelle che il Gran Maestro Adriano Lemmi indicò al venerabile Crispi: << malgrado l’andamento degli indicatori economici più significativi la situazione internazionale offriva ampi spazi di manovra per assicurare risorse alla modernizzazione e al riarmo del paese. Bastava spostare l’interesse di Berlino dalla Russia zarista al regno sabaudo >> 18.
Ecco quindi entrare in scena l’asso nella manica di Adriano Lemmi, Otto Joel. Proveniente da una famiglia israelita tedesca di Danzica, Joel si era trasferito in Italia a quindici anni. Frequentava le Logge di Genova e Milano, << dove fece una brillante scalata nel sistema bancario >> 19. Furono i maneggi di Margherita di Savoia, alla quale era stato raccomandato dal venerabile Crispi, ad aprire a Joel le porte del successo in Germania. La regina sollecitò l’intervento di un cugino di Guglielmo I, che era stato un tempo un suo corteggiatore, e tanto bastò a farlo ammettere alla stessa Loggia alla quale appartenevano il Kaiser e il figlio di Bismark, Herbert, che era all’epoca Sottosegretario di Stato agli Esteri con delega all’Italia. << Sicché su Lemmi e Joel veniva stesa la tegolatura con l’intervento personale dell’imperatore sulla banca tedesca in dinamica proiezione all’estero e di estrema fiducia perché curava gli interessi della corte >> 20.
Nassi afferma che << il risultato dell’operazione è una massiccia penetrazione del capitale tedesco nel sistema italiano le cui dimensioni portarono rapidamente alla creazione di un consorzio che, nei primi anni Novanta, genera la Banca commerciale e il Credito italiano nei cui vertici sarà predominante la presenza massonica. Crispi finalmente ha i mezzi per sviluppare la rete delle comunicazioni, l’agricoltura e per innestare nel sistema-paese la modernità dei sistemi produttivi avanzati, riassorbendo stagnazione, disoccupazione e un’ingente quota di debito pubblico, ma anche per rafforzare e modernizzare l’esercito e la marina e per sostenere le imprese africane >> 21.
Nella ricostruzione di Nassi troviamo quindi una finanza francese contrapposta a una finanza tedesca. Abbiamo visto però che la finanza francese era dominata dai Rothschild di Parigi: chi era invece che tirava le fila della finanza tedesca? Nella prima metà dell’Ottocento essa era controllata da Amschel Rothschild (1773-1855), che fu a capo del ramo di Francoforte del casato. Tuttavia già prima della fine del secolo si andavano affermando altre casate di banchieri, gli ebrei ashkenazi Warburg e i Gunzburg.
Scrive Pietro Ratto: << Nel 1895 Paul Warburg, erede dell’intero patrimonio economico-finanziario della famiglia, sposò Nina J. Loeb, figlia di Samon Loeb, fondatore della grande banca americana Khun, Loeb & Co […] Nello stesso anni, il fratello Felix Warburg sposò Frieda Schiff, figlia dell’influente agente dei Rothschild Jakob Schiff, discendente dell’omonima famiglia di banchieri ebrei, che condivideva la casa natia del capostipite dei Rothschild, Amschel Mayer, a Francoforte. Jakob Schiff era anche il direttore della suddetta Khun, Loeb & Co. La famiglia Warburg, insomma, risultava intrecciata con le principali dinastie della finanza ebraica. Lo zio di Paul, Sigmund Warburg (1835-1889), aveva sposato nel 1863 Theophilie Rosenberg, discendente della grande famiglia di ebrei russi, ricchissimi proprietari terrieri; la sorella di Theophilie, Anna, era invece andata in sposa al grande banchiere e barone Horace Gunzburg (1883-1909), e i figli di Theophilie e di Anna, rispettivamente Rosa e Alexander Moses, si erano uniti in nozze tra loro, cementando così definitivamente l’unione tra i Gunzburg e i Warburg >> 22.
Se dunque Alphonse de Rothschild aveva negato prestiti a Bismark per finanziare la guerra franco-prussiana, è però vero che altre famiglie ebraiche avevano posizioni di assoluto rilievo nella finanza tedesca. I nuovi capitali affluiti in Italia durante il governo Crispi appartenevano al mondo della finanza internazionale sionista proprio come al tempo di Cavour, sebbene ufficialmente non provenissero più da Parigi bensì Berlino. Una differenza risibile in un contesto per sua natura cosmopolita come quello della finanza. Pure lui ebreo – e anche massone – era l’uomo di fiducia delle famiglie dei banchieri israeliti tedeschi: Otto Joel. Possiamo allora tentare di tirare le somme: attratti da investimenti più redditizi, i Rothschild diminuirono la propria presenza sulla piazza francese, dove pure consolidarono la propria egemonia, e vendettero – nel senso più letterale del termine – l’Italia ad altri banchieri israeliti. Il tutto col beneplacito di Sua Maestà britannica, interessata a mantenere uno stato di frizione tra l’Italia e la Francia per salvaguardare la rotta che attraverso il Mediterraneo e Suez conduce in India. Possiamo così ipotizzare che il Gran Maestro Adriano Lemmi avesse avuto l’incarico di condurre in porto senza scossoni questa transizione di natura finanziaria: ciò confermerebbe l’importanza della nomina di un banchiere alla guida del Grande Oriente d’Italia.
Le conseguenze nel campo della politica internazionale, rappresentate nello stato di frizione con la Francia, sarebbero il riflesso di queste speculazioni finanziarie. In campo massonico la rottura tra il Grande Oriente d’Italia e quello di Francia potrebbe essere stato incoraggiato dalla Grand Lodge of England per sbarrare la strada all’imperialismo francese e garantirsi il controllo della vita pubblica italiana attraverso << fratelli >> ostili alla massoneria francese. Ciò potrebbe essere confermato, almeno indirettamente, dall’episodio emblematico di un << Grande Oriente con tempio a Palermo indipendente da Roma: e perciò immediatamente riconosciuto da Parigi, in odio a Lemmi e al crispismo, ma bollato dalla Loggia-madre londinese per eccesso di ideologia profana >> 23.
Un altro, aspetto collegato a quello finanziario, non può non essere menzionato. Il golpe silenzioso di Adriano Lemmi, per funzionare, necessitava di coperture che abbracciassero l’intero arco politico. Infatti non vi erano solo il governo da manovrare e la sua maggioranza parlamentare da blindare: bisognava tenere d’occhio anche l’opposizione parlamentare, che se avesse svolto la sua tradizionale funzione di controllo avrebbe potuto denunciare certe manovre dinnanzi all’opinione pubblica. Da uomo pratico, il banchiere Lemmi indovinò che esisteva un argomento capace di mettere tutti d’accordo: il denaro. Un fiume di denaro si riversò dalle banche di emissione direttamente nelle tasche di uomini politici e di faccendieri, tutti in odore di massoneria.
La trattazione della faccenda necessita di una breve premessa. All’indomani dell’unità d’Italia vi sono una decina di istituti di credito che stampano moneta: una situazione ereditata dalla precedente stato di frazionamento politico in cui si trovava la Penisola. Ognuna di queste banche, oltre a svolgere le normali attività di sportello, stampava vari titoli di credito: banconote, assegni circolari, cambiali al portatore. Alla sola Banca Nazionale d’Italia – ex Banca Nazionale degli Stati Sardi – è accordato il privilegio di stampare moneta in quantità illimitata ovvero senza obbligo di garantire la copertura delle emissioni per mezzo di una adeguata riserva aurea. Le sue banconote sono le sole ad essere accettate senza problemi in tutta la Penisola, laddove i titoli di credito di altri istituti di emissione sono accettati con diffidenza – a volte persino rifiutati! – al di fuori della regione dove sono stati emessi. Dopo un primo riassetto del sistema bancario emergono altre tre realtà – oltre alla già citata Banca Nazionale d’Italia – autorizzate a stampare moneta, seppure in quantità limitata: il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia e la Banca romana di Credito. Un quinto e un sesto istituto di emissione possono essere individuate nella Banca Nazionale Toscana e nella Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio d'Italia, che continuano a far circolare titoli di credito già esistenti e rimborsabili in oro. In tale modo si rafforzano i legami tra la Destra storica, i ceti imprenditoriali del Nord e il sistema bancario pur tutelando le situazioni preesistenti di clientelismo locale. A rendere ancora più caotica la situazione si aggiungeva la mancanza di controlli, poiché mancava un’istituzione pubblica di vigilanza come poteva essere una banca centrale. Perciò continuano a circolare titoli di credito o banconote abusive – cioè mascherate da assegni circolari o buoni di cassa – emessi da banche minori e persino da società finanziarie e imprese di costruzione. Tali titoli vengono spesso preferiti alle banconote vere e proprie.
Un tentativo di riordino del sistema fu fatto da Cavour, che intendeva centralizzare l’emissione della moneta nella Banca Nazionale d’Italia, ma il suo progetto si arenò in parlamento. Infatti vi erano lobby politico-affaristiche fortemente radicate nel tessuto locale da cui provenivano, che erano contrarie a qualsiasi ingerenza del Governo. Minghetti riuscì a far approvare una legge per la creazione di un Consorzio Obbligatorio degli Istituti di Emissione, che però non ebbe efficacia dal momento che i controlli erano una farsa. Mentre gli uomini politici e i banchieri tentavano di mettere ordine in una situazione che minacciava di diventare esplosiva o si battevano per salvaguardare piccoli interessi di bottega, un cospiratore del livello di Adriano Lemmi pianificò un progetto eversivo di vasta portata. Si trattava, detto in maniera sintetica, di creare un’emissione parallela di carta moneta con la quale corrompere uomini politici e giornalisti. Il tutto, chiaramente, doveva essere fatto nel massimo segreto e a tal fine Lemmi aveva piazzato i “fratelli” alla guida delle banche interessate. Le conseguenze, ovvero la svalutazione della Lira, avrebbe generato una spirale inflattiva che avrebbe colpito particolarmente i lavoratori salariati e gli indigenti contro i quali, come abbiamo già visto nel capitolo precedente, lo Stato non esitava a mandare l’esercito.
Su questo argomento scrive Giulia Pezzella:
<< Nel 1889, principalmente a causa della crisi del settore edilizio, alcune banche si trovarono sull’orlo del fallimento. La cosa accreditò le voci che circolavano da tempo circa un’eccessiva emissione di carta moneta da parte delle banche autorizzate. Il ministro dell’agricoltura Miceli promosse l’inchiesta amministrativa per verificare l’operato delle banche autorizzate a stampare moneta che fu affidata al senatore Giuseppe Alvisi (già deputato della Sinistra) insieme al funzionario del tesoro Gustavo Biagini. Bisognava capire, in particolare, se il quantitativo di denaro emesso fosse congruo ai parametri stabiliti. I risultati confermarono i sospetti: la Banca romana aveva stampato 25 milioni di lire in più e aveva sanato l’ammanco di diversi milioni con una serie di biglietti falsi (duplicava cartamoneta già stampata); inoltre fu messo in evidenza il coinvolgimento diretto del suo governatore Bernardo Tanlongo. Dalle indagini emerse anche che la Banca aveva utilizzato questo denaro non solo per finanziare le speculazioni edilizie, ma anche politici e giornalisti.
<< Per evitare lo scandalo durante i tre anni successivi Crispi, Giolitti e anche Di Rudinì preferirono tenere segreti i risultati in nome degli interessi più alti della patria. L’inchiesta, dunque, venne insabbiata per scongiurare le conseguenze negative che avrebbe avuto tanto sul sistema creditizio che sul mondo politico >> 24.
L’inchiesta era nata da un’improvvida manovra di Francesco Crispi e del suo ministro Giovanni Nicotera, che mirava ad allontanare dalla direzione del Banco di Napoli il senatore Girolamo Giusso. Le accuse alla gestione di questo istituto, secondo la relazione, erano confermate, ma le irregolarità riscontrate erano comuni a tutte le banche d’emissione: il vero scandalo era rappresentato dalla Banca romana. La faccenda si complicò per l’insistenza di un onesto funzionario, Biagini, che senza cedere alle pressioni conferma il rapporto stilato anche di fronte al ministro. Poiché l’opposizione era al corrente della situazione, la bomba era pronta ad esplodere. Tutto il sistema ora poggiava sulle spalle del governatore della ex banca pontificia, Tanlongo.
Secondo la ricostruzione che ne fa Nassi, Bernardo Tanlongo era << un finanziere in forte odor di massoneria approdato al Senato con l’appoggio di Margherita e di Crispi. Sin dai primi anni Ottanta Tanlongo era la cerniera più essenziale di quel diffuso sistema di corruzione noto come << politica di scambio >> (danaro contro favori). Ne aveva dato a tutti o in nero, truccando i bilanci, o sotto forma di prestiti da archiviare come insoluti. Nel suo libro paga c’erano politici, amministratori pubblici, funzionari, generali e diplomatici. Non mancavano neppure i nomi di Umberto e di Crispi e di Giovanni Gioliti, astro nascente della politica italiana >> 25. Quest’ultima affermazione è notevole, poiché il primo ministro Crispi aveva affidato l’ispezione proprio a un deputato della Sinistra vicino a Giolitti, Giacomo Giuseppe Alvisi, già Presidente della Corte dei Conti. Tutto, dunque, lasciava intendere che il clima di omertà avrebbe unito la Destra e la Sinistra, entrambe complici del sistema corruttivo alimentato dalla Banca Romana. Solo l’insistenza di Biagini complicava i piani.
Tanlongo era dunque un elemento della catena di potere del Gran Maestro Adriano Lemmi. Ora si dà il caso che tutte le catene siano tanto forti quanto è forte l’anello più debole. Tanlongo era appunto l’anello debole. Chiamato di fronte al ministro a rispondere di accuse assai circostanziate, il senatore “in forte odor di massoneria” cede e ammette tutti gli addebiti. La Banca romana ha emesso 25 milioni di lire in più rispetto a quanto le era consentito, altri nove milioni e mezzo erano stati stampati ufficialmente per ritirare dalla circolazione le banconote usurate, che invece erano state riprodotte con gli stessi numeri di serie e messi in circolazione come duplicati delle prime, ovviamente non distrutte. La banca risulta inoltre creditrice per cospicue aperture di credito e finanziamenti concessi al settore edilizio durante la grande speculazione ottocentesca per il risanamento di Roma e la costruzione di nuovi quartieri.
Sapendo di avere le spalle coperte, Tanlongo rassicura il ministro: la Banca Nazione d’Italia ha concesso un primo prestito di dieci milioni di Lire per coprire gli ammanchi, poi un secondo di tre milioni mentre altri sei milioni sarebbero stati occultati attraverso un certo numero di conti correnti fittizi. Ma Biagini non molla e, nel corso di una seconda ispezione, scopre anche le nuove irregolarità e questa volta avvisa non solo il ministro ma anche Alvisi. L’anziano senatore, ormai prossimo alla morte e per questo tormentato dai dubbi di coscienza, predispone un dossier e dà disposizioni affinché diventi di pubblico dominio dopo la sua morte.
Il malaffare e le responsabilità personali di Crispi e Giolitti nell’insabbiare la faccenda vengono denunciate in un intervento alla Camera del deputato di Sinistra Colajanni, il 20 dicembre 1892. Il momento è stato attentamente calcolato, perché di lì a 10 giorni si sarebbe dovuto votare un disegno che avrebbe prorogato di altri sei anni l’emissione forzosa della moneta, e la sua estensione a tutti gli istituti di credito. All’indomani nomi e cifre finiscono in prima pagina su tutti i giornali. Si muove la magistratura, che alla fine di gennaio arresta Tanlongo e gli altri dirigenti della Banca romana, Lazzaroni e Torlonia. Viene arrestato anche il direttore del Banco di Napoli, Cuciniello, che si era dato alla latitanza, girando in abiti talari, dopo aver lasciato un ammanco di cassa di 2,4 milioni di lire. Si muove anche il Parlamento, che il 30 dicembre istituisce in tutta fretta una commissione d’inchiesta, mentre l’emissione forzosa viene prorogata di soli 3 mesi. I disegni del Gran Maestro Adriano Lemmi subiscono un colpo decisivo.
Trovandosi al fresco, Tanlongo si rinfresca le idee e vuota il sacco coinvolgendo politici di primo piano. Giolitti, capo del governo dal 15 maggio 1892, si dimette il 15 dicembre 1893 quando le sue responsabilità vengono discusse in Parlamento: << Giolitti fu accusato principalmente di tre cose: di aver tenuti nascosti i risultati del lavoro di Alvisi (all’epoca era ministro del tesoro), di aver proposto il nome di Tanlongo come senatore e di aver ricevuto denaro dalle casse della Banca romana per finanziare le sue campagne elettorali >> 26. Lasciata temporaneamente la politica, Giolitti fugge all’estero per timore di essere arrestato: svolto il suo compitino di utile idiota, può ora restituire la poltrona al Venerabile Crispi, che il 15 dicembre forma il suo terzo governo rimasto in carica fino al 14 giugno 1894. Seguirà un quarto governo Crispi che naufragherà all’indomani della disfatta di Adua.
Scrive la Pezzella:
<< I nomi legati a quello strano e oscuro personaggio che era Tanlongo erano molti ed eccellenti: lo scandalo della Banca romana aveva travolto la politica, almeno in parte e allo stesso tempo rappresentava la crisi finanziaria che il paese stava attraversando. Ma il processo del 1894 assolse tutti, anche Tanlongo (Sor Berna’, come lo chiamavano in Banca), per insufficienza di prove: i giudici accolsero la tesi che sosteneva la sottrazione, nel corso delle indagini, di importanti documenti.
<< Le ripercussioni, però, furono notevoli. Dal punto di vista politico la più evidente fu la scomparsa – momentanea – di Giolitti dalla scena politica. Dal punto di vista finanziario, la più importante fu sicuramente l’istituzione nel 1893 della Banca d’Italia – che sarebbe poi diventata l’unico istituto di emissione dello Stato – a cui fu affidata la liquidazione della Banca romana >> 27.
Anche i disegni cospirativi del Gran Maestro Lemmi si avvicinavano alla fine: << Nel 1894, quando il suo nome comparve fra quelli dei personaggi coinvolti nello scandalo della Banca romana, per il L. iniziò un rapido declino, che coincise nei tempi con quello dell'amico Crispi e che fu scandito da violente campagne di stampa contro di lui e contro l'organizzazione liberomuratoria.
<< All'interno della massoneria, dopo il 1896, gli restò unicamente la carica di sovrano gran commendatore del rito scozzese, che conservò fino alla morte, avvenuta a Firenze il 23 maggio 1906 >> 28.
Dopo lo scandalo della Banca romana, la vergognosa disfatta di Adua (1 marzo 1896) ad opera di Menelick segna la fine della parabola di Crispi: << Crispi non ha retto a questa stretta della storia e con lui crolla anche il sistema di relazioni e di potere occulto della Gran maestranza di Adriano Lemmi e della Loggia della << P2 >> di Licio Gelli. Nelle Logge, di riflesso, si concludeva la fase storica dell’appiattimento istituzionale sul crispismo; e si riaccendeva la polemica tra le anime storiche della massoneria. L’ala democratica, portavoce di un malessere largamente diffuso nella piccola e media borghesia, come nei ceti popolari politicamente già organizzati, rivendicava per l’ordine il ruolo di guida del riformismo italiano […] Nell’ala di maggioranza – che dalla strisciante guerriglia passava bruscamente alla rottura diplomatica con il Grande Oriente di Parigi – a prevalere continuava ad essere la concezione lemmiana della massoneria come << partito dello Stato >> e di conseguenza corpo neutrale nei conflitti sociali anche quando assumeranno, come nel ’98, la dimensione della protesta insurrezionale… >> 29.

Note
1.    E. Nassi, La massoneria in Italia, Newton, pp. 43-44
2.    Ibidem, p. 42
3.    Cfr. l’articolo di F. Conti, Lemmi, Adriano. Dizionario biografico degli italiani, Vol. 64 (2005) all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/adriano-lemmi_(Dizionario_Biografico)/ consultato in data 11/08/2015
4.    Cfr. l’articolo di M. Celi, I “Muratori” che costruivano il potere occulto all’URL http://cronologia.leonardo.it/mondo27h.htm consultato in data 11/08/2015
5.    E. Nassi, op. cit. , p. 44
6.    Ivi.
7.    Ibidem, p. 45.
8.    Ibidem, p. 46.
9.    Ivi.
10.  Ibidem, p. 45.
11.  Ibidem, p. 49.
12.  P. Ratto, I Rothschild e gli altri, Arianna editrice, pp. 28-29.
13.  E. Nassi, op. cit. , p. 46.
14.  Ibidem, p. 49.
15.  Ivi.
16.  Ibidem, p. 50
17.  Ivi.
18.  Ivi.
19.  Ivi.
20.  Ibidem, p. 52.
21.  Ivi.
22.  P. Ratto, op. cit. , p. 74.
23.  E. Nassi, p. 53.
24.  Cfr. l’articolo di G. Pezzella, Lo scandalo della Banca Romana in Enciclopedia Treccani, all’ URL http://www.treccani.it/scuola/lezioni/in_aula/storia/banche/pezzella.html  consultato in data 12/08/2015
25.  E. Nassi, op. cit. , p. 52.
26.  G. Pezzella, op. cit.
27.  Ivi.
28.  F. Conti, op. cit.
29.  E. Nassi, op. cit. , pp. 52-53

 L'ARTICOLO CHE AVETE LETTO PROVIENE DAL SAGGIO MUSSOLINI E GLI "ILLUMINATI" DI ENRICO MONTERMINI.
L'OPERA E' DEPOSITATA PRESSO LA SIAE ED E' TUTELATA DALLE NORME A DIFESA DEL DIRITTO D'AUTORE.


Ebrei e massoni, l’altra faccia del Risorgimento.

Prima di parlare di Mussolini e dell’Italia fascista, sarà opportuno liquidare un certo numero di luoghi di comuni sul Risorgimento e l’Italia liberale. Premesso che non è questa la sede per analizzare in modo approfondito un tema tanto vasto, indicheremo tre punti fondamentali che intendiamo esplorare: il ruolo di esecutore che gli “Illuminati” hanno assegnato a Cavour e al Venerabile Maestro Garibaldi; la nascita della massoneria in Italia; la figura, tuttora sconosciuta al grande pubblico, del Gran Maestro della Massoneria Universale Adriano Lemmi.
Nel tracciare un’immagine assolutamente fuori dagli schemi di Cavour, ci rifaremo allo studio di Carmine De Marco Revisione della Storia dell’Unità d’Italia 1 soffermandoci solo sui punti di maggior interesse per il nostro studio che possono essere riassunti in questa tesi:
<< Nel corso di queste pagine noteremo (fatto pochissimo rilevato dagli storici delle vicende dell’unità italiana e, in ogni caso, non evidenziato) la comunanza di interessi tra ambienti finanziari protestanti e ambienti finanziari ebraici e noteremo anche la frequentazione del Cavour di quegli ambienti e del suo coinvolgimento, personale e da statista, in quegli interessi. Una lettura delle vicende di quegli anni in chiave anticattolica, o, per meglio dire, ostile agli ambienti politici e finanziari legati al cattolicesimo, è da preferire alla stantia storia dell’epopea risorgimentale e delle ragioni della nascita dello Stato unitario italiano >> 1 .
Questo scontro tra gruppi finanziari antagonisti si ripeterà ancora nel corso degli anni Venti del Novecento, quando Mussolini edificherà il Regime: lo vedremo più avanti. Per il momento professiamo un’intenzione: denunciare la malafede con la quale si è tentato di fare del dittatore romagnolo un comodo capo espiatorio per colpe che invece sono ataviche nella storia di questo Paese. La presente analisi del contesto, delle motivazioni e dei metodi con i quali si è unificata l’Italia ci permette appunto scoprire che Mussolini nel 1922 assunse il governo di una nazione ben diversa da quella che ci è stata raccontata. Seguendo questo percorso di conoscenza affermiamo che certe azioni delittuose, messe in atto dai “poteri forti” contro milioni di italiani, possono essere rintracciate con continuità in tutta la storia italiana, prima e dopo il ventennio mussoliniano e anche oggi. A patto però di non cedere alla comoda ricostruzione di un Paese della fantasia, quale quella che ci hanno consegnato il mondo accademico, l’editoria, la televisione. La strategia del silenzio e della mistificazione, messa in atto da una classe intellettuale complice, ha finora impedito alla maggioranza degli italiani di comprendere fino a che punto certi giochi si ripetano ciclicamente. Noi tenteremo quindi di identificare questi poteri e di smascherare le azioni criminali iniziando con lo smantellare l’epopea risorgimentale.
Iniziamo col dire che per ben dieci anni, tra il 1834 e il 1843, il giovane Camillo Benso Conte di Cavour conduce una vita dissoluta spostandosi continuamente tra Ginevra, Parigi e Londra. Durante questi viaggi egli entra in contatto con ambienti finanziari ebraici e protestanti contigui alla massoneria. Ebbe così modo di conoscere personalmente due dei più potenti banchieri al mondo: James Rothschild a Parigi e Odier a Ginevra. Col loro aiuto finanziario Cavour, prima di darsi alla politica, si dedica all’imprenditoria collezionando però una sequenza impressionante di fallimenti. La prima considerazione la lasciamo tirare all’eccellente De Marco: << In tutti libri da me consultati non ho mai trovato la spiegazione dell’origine dei capitali che Cavour investiva e distruggeva. Salvo alcuni accenni ai banchieri genovesi De La Rüe ed ai banchieri ginevrini de La Rive che finanziarono parzialmente alcune imprese, il resto è mistero >> 2 . La seconda considerazione proviamo a tirarla noi: il Cavour dedito alla bella vita, al gioco d’azzardo, alla speculazione in borsa e a fallimentari attività imprenditoriali descritto da De Marco è un soggetto in possesso di quelle debolezze caratteriali che lo rendono perfetto per essere arruolato come “personale straniero di rinforzo” 3 da parte di servizi segreti e società segrete stranieri.
Nota De Marco: << cosa sia successo nel 1850 perché da sfaccendato e dilapidatore di sostanze paterne si sia trasformato in uomo politico, non si capisce. È logico supporre che nei suoi viaggi in Inghilterra ed in Francia Cavour sia venuto a contatto con ambienti della grande finanza internazionale, interessati a far conquistare nuovi mercati ai prodotti delle industrie da loro finanziate o interessati all’impiego dei loro capitali. In quegli anni gli Stati italiani erano rigidamente protezionisti e non favorivano l’importazione di prodotti dall’estero. Il primo Stato italiano ad abbattere le barriere doganali fu il Piemonte per l’opera del Cavour: prima ministro dell’agricoltura, poi delle finanze, infine primo ministro. La grande finanza internazionale, che condizionava tutti i governi, ebbe interesse allora a far appoggiare le mire espansionistiche del Piemonte, oberato di debiti interni per le precedenti sconfitte nelle guerre di conquista e per l’attuazione della politica doganale liberistica. Nel 1857 il saldo passivo tra importazioni ed esportazioni aveva raggiunto i 100 milioni di lire. Era un calcolo di convenienza reciproca. Da un lato il capitale dei finanzieri francesi ed inglesi veniva remunerato per i prestiti, garantiti dall’appoggio dei loro governi alla politica espansionistica del Piemonte e per i consumi dei loro prodotti. Dall’altro lato il Piemonte attuava una politica di investimenti interni e di conquiste territoriali. In fondo conveniva alle due parti. Gli unici a non essere d’accordo erano i cittadini piemontesi che pagarono in tasse ed in vite umane quella politica: ma questo aspetto del problema non interessava assolutamente i finanzieri, Cavour e Vittorio Emanuele >> 4 .
Gli ambiziosi programmi di Cavour, in effetti, necessitavano di ingenti capitali: << il ricorso al credito estero per far fronte alle spese del programma ferroviario avvenne con un prestito concluso con la banca Hambro di Londra che fruttò al netto quasi 80 milioni >> 5. Da notare che secondo lo storico della massoneria Enrico Nassi il gruppo inglese degli Hambro era una fucina di Venerabili “33”, proprio come i già citati Rothschild 6 .
Aggiunge De Marco: << L’aumento della pressione tributaria non bastò a coprire l’aumento notevolissimo della spesa pubblica negli anni successivi, sicché il bilancio piemontese rimase costantemente in deficit e furono necessari nuovi ricorsi al credito. Forti difficoltà trovò Cavour nella politica bancaria. Non riuscì infatti nel luglio 1851 a fare approvare dalla Camera il suo progetto di rafforzamento della Banca Nazionale. Ma il progetto, che in sostanza attribuiva alla Banca il monopolio dell’emissione di biglietti a corso legale, fu respinto. Alcuni lo giudicarono troppo ardito; altri lo giudicarono non rispondente ai princìpi liberisti tanto calorosamente sostenuti dallo stesso Cavour >> 7 . Sarebbe interessante sapere chi stampava all’epoca la carta moneta del Regno Sabaudo…
Malgrado Cavour avesse dichiarato che la riforma della finanza pubblica era una priorità assoluta, i risultati della sua opera possono essere così sintetizzati: << Alla fine del 1853 i prestiti esteri avevano reso un prodotto netto di oltre 304 milioni. Al primo gennaio 1859 il debito pubblico piemontese ascendeva ad oltre 786 milioni! >> 8 . Possiamo già affermare che il senso recondito dell’azione politica del “grande statista” fosse di schiavizzare l’intero popolo italiano ai magnati della finanza internazionale mediante il debito pubblico, come vedremo meglio in seguito. Nel 1854 la situazione del debito pubblico era già fuori controllo, al punto che persino il fedelissimo banchiere Hambro pretendeva un controvalore in cambio di nuovi finanziamenti: Cavour si rivolse allora all’altro “amico”, il Rothschild, che erogò un nuovo prestito per 35 milioni. Quello che De Marco sembra non cogliere, parlando di un Cavour offeso che rompe con il banchiere Hambro, è il fatto che i Rothschild – altra storica culla di venerabili “33” – fossero consociati a Londra proprio con il gruppo Hambro, come ci informa Nassi: ciò farebbe pensare a un sottile gioco delle parti per estorcere tassi di interesse ancora più pesanti al Regno Sabaudo.
Un’altra tremenda mazzata alle finanze fu la partecipazione alla guerra di Crimea, grazie alla quale il Regno Sabaudo poté sedersi al tavolo della pace con le grandi potenze – Francia, Gran Bretagna e Russia – ed esporre il problema dell’unità d’Italia. A quel tempo fece scalpore una lapidaria sentenza: << Quindici mila fra di voi - scriveva Mazzini in un appello ai soldati che stavano per partire per la Crimea e in una lettera aperta al Cavour - stanno per essere deportati in Crimea. Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia. Per servire un falso disegno straniero, le ossa vostre biancheggeranno calpestate dal cavallo del cosacco >> 9 . L’aspetto più curioso della vicenda non risiede certo nel ben noto presenzialismo che sempre ha afflitto la politica estera italiana, quanto piuttosto al modo in cui maturò la decisione dell’intervento militare. Il governo inglese infatti si era limitato a chiedere al Regno del Piemonte un contingente di 10.000 soldati da schierare in Crimea sotto il proprio comando e a proprie spese. << Il Piemonte, orgogliosamente, non accettò che i suoi soldati fossero pagati come mercenari, voleva fornirli da alleato. Unico problema: non aveva come mantenerli, quindi chiese in prestito i soldi. Solo che, invece di chiedere in prestito la somma che occorreva a mantenere i soldati, 600 mila sterline, cioè 15 milioni di lire, ne chiedeva due milioni, cioè 50 milioni di lire >> 10 al tasso di interesse del 4% annuo. Il governo di Sua Maestà dovette farsi garante, di malavoglia, dei prestiti usurai concessi dall’oligarchia finanziaria degli “Illuminati”. Mentre questi fatti vengono tuttora taciuti per pudore dai nostri intellettuali sui giornali e sui libri, i contemporanei ebbero invece chiara consapevolezza della realtà delle cose: << Il giornale Armonia (19, 20, 30 gennaio 1855) sostenne che l’alleanza fosse avvenuta a condizioni "non troppo onorevoli", che da essa vi erano da attendersi solo "umiliazione, guerra e debiti", e che alla sua origine v’era la disperata situazione finanziaria, la quale soltanto aveva indotto Cavour a "vendere" 15 mila soldati piemontesi per "un imprestito di 25 milioni" >> 11 . Malgrado 2.000 caduti, per una serie di ragioni, che De Marco illustra molto bene nel suo saggio, il Regno Sabaudo non otterrà nessun vantaggio al tavolo della pace: l’intera guerra, dunque, fu promossa con l’unico obbiettivo di accrescere l’indebitamento del regno nei confronti dell’oligarchia finanziaria internazionale. Ancora una volta, dunque, il conte di Cavour agiva come un semplice esecutore degli ordini degli “Illuminati”.
La Seconda guerra d’indipendenza è un esempio ancora più smaccato di questa teoria. Essa fu decisa a tavolino da Napoleone III e da Cavour durante l’incontro di Plumbièrs. Così De Marco commenta il resoconto ufficiale di quell’incontro: <<  La guerra all’Austria andava fatta per consentire al Piemonte, con i nuovi acquisti territoriali, di poter ripagare l’enorme debito accumulato anche con le sue guerre precedenti. In pratica i creditori dovevano finanziare ancora una volta il Piemonte per poter riprendere i vecchi ed i nuovi prestiti. Dall’altro lato Napoleone III facendosi garante della riuscita della guerra, guadagnava Nizza e la Savoia, scaricando il costo della guerra sul Piemonte: tipico caso di usura! Per Cavour non aveva importanza, un debito in più uno in meno >> 12 .
Per le ragioni sopra esposte il 20 novembre 1855 re Vittorio Emanuele II e il conte di Cavour partono alla volta di Parigi: << gli incontri più importanti Cavour li ebbe con Rothschild e con Isaac Péreire, i due massimi esponenti del mondo finanziario francese. Péreire gli parve "un homme étonnement habile" "un uomo straordinariamente abile" dotato di "plus d’esprit que tous les banquiers de Paris réunis" "più immaginazione di tutti i banchieri di Parigi". Con i ministri Magne e Rouher e con i finanzieri interessati, che, in aggiunta al Laffitte, presidente della società ferroviaria Vittorio Emanuele, includevano i ricordati Rothschild e Péreire e altri ancora, preparò l’accordo poi sanzionato il 7 dicembre in vista della fusione della Vittorio Emanuele con altre iniziative ferroviarie francesi […] in tal modo 200 milioni, raccolti sui mercati finanziari stranieri, avrebbero fecondato l’economia del paese […] Sempre negli incontri avvenuti a Parigi, Cavour, spinto da Bolmida, presidente della Cassa di Commercio e corrispondente torinese di Rothschild, concluse con questi un accordo per la creazione di una grande banca mobiliare e Rothschild si dichiarava disposto a sostenere una impresa che doveva diventare "une affaire Italienne", atta a estendere l’influenza del Piemonte in tutta la penisola italiana >> 13 . Ecco quindi provati i contatti diretti di Cavour con gli “Illuminati” ed ecco spiegato chiaramente il loro disegno: “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” – celebre motto erroneamente attribuito a Massimo d’Azelio – significherebbe perciò vendere il popolo d’Italiano al potere usuraio della finanza sionista e ridurlo, mediante un debito inestinguibile,  nella triste condizione di una massa di schiavi. Date, nomi e fatti sono qui chiaramente esposti: se qualcuno ha qualcosa da obbiettare li contesti pure, ma – per favore – non si tiri in ballo la solita accusa di antisemitismo per tacitare discorsi scomodi. E’ anche giusto, a nostro avviso, che la gente comune venga informata di queste cose: l’ignoranza, infatti, non paga mai.
Attraverso la narrazione di De Marco citiamo altre prove a sostegno della nostra ipotesi: << Si deve aggiungere che tra i due abili personaggi, Cavour e Rothschild, l’abile era solo quest’ultimo. Infatti Rothschild subito ebbe esitazioni e perplessità: alcune delle iniziative proposte non parevano al grande banchiere sufficientemente importanti né sufficientemente redditizie per ciò si posero gravi problemi per la sottoscrizione dell’aumento di capitale riservato a Rothschild. Cavour fu costretto a far collocare il capitale non sottoscritto oltre che sul mercato italiano anche a Bruxelles, Amsterdam e Ginevra, provocando un sensibile ribasso del titolo della Cassa di Commercio. Non migliori risultati ebbero altre iniziative bancarie promosse da Cavour, come quella del Credito Profumo che visse tra difficoltà e fu sciolto nel 1861 […] Uno dei risultati del viaggio a Parigi fu la conclusione con Rothschild e con la Cassa di Commercio e Industria di Torino del prestito di 40 milioni autorizzato con la legge del 26 giugno 1858. Rothschild e la Cassa avevano assunto ciascuno metà dell’operazione, ma la Cassa fungeva da intermediaria con altri istituti torinesi e genovesi, e di fatto l’affare fu accentrato nelle mani di Rothschild. Questo prestito doveva dare a Cavour una relativa tranquillità e consentirgli la sua azione diplomatica di provocazione dell’Austria >> 14
Mentre Cavour briga con Napoleone III e Vittorio Emanuele II per arrivare a un conflitto armato con l’Impero asburgico un testimone d’eccezione, il Massari, riferisce in data 25 dicembre 1858 la smania di Rothschild per avere indiscrezioni da Cesare Beretta sul contenuto del discorso della Corona. Vittorio Emanuele II avrebbe scelto parole tali da provocare una crisi diplomatica con Vienna? Gli speculatori attendevano ansiosi e il più ansioso tra loro era James Rothschild perché era particolarmente esposto in tutta la vicenda. Perciò il 9 gennaio successivo Cavour confida al Massari la preoccupazione, all’interno del Consiglio dei Ministri, per il tono minaccioso del discorso del re: si teme una reazione negativa alla Borsa di Parigi. Già in data 11 gennaio 1859 Massari annota le nuove preoccupazioni di Cavour: << mi dice: "Sarà più facile trovar danari dopo aver fatta toccare una sconfitta agli austriaci che prima". Sir James stamane mi mostra una lettera di John Samuel nella quale è detto che a Londra "all Jews believe in war", "tutti gli Ebrei sperano nella guerra" >> 15 .
Il 17 gennaio 1859 il principe Napoleone, figlio di Napoleone III, arrivava a Torino per sottoscrivere assieme a Vittorio Emanuele II una serie di accordi: << il trattato prevedeva l’impegno della Francia ad aiutare il Piemonte nel caso che fosse attaccato dall’Austria; la costituzione alla fine della guerra di un regno dell’Alta Italia, con possibilità di annettere i territori delle Legazioni; la cessione alla Francia della Savoia (la sorte della contea di Nizza era rinviata ad una successiva occasione). Al trattato erano annesse due convenzioni, una militare e una finanziaria. La prima stabiliva che le forze alleate da impegnare in Italia sarebbero state di circa 300 mila uomini, 200 mila francesi e 100 mila sardi; che il comando supremo sarebbe spettato all’imperatore. La seconda stabiliva che le spese di guerra sarebbero state rimborsate alla Francia dal regno dell’Alta Italia per mezzo di annualità corrispondenti a un decimo delle entrate annue del regno stesso >> 16 . Quest’ultimo aspetto, di natura finanziaria, sarà fondamentale per chiarire il successivo svolgersi degli avvenimenti.
Lasciando da parte il mistero, tuttora irrisolto, del motivo per cui l’Impero Asburgico si lasciò attirare nella Seconda guerra d’indipendenza, vediamo invece quale fu l’esito di quello stranissimo conflitto. Scrive De Marco:
<< Napoleone nel bel mezzo della guerra all’Austria si fermò. Invece di marciare su Vienna, firmò l’armistizio di Villafranca con l’imperatore d’Austria, senza consultare né Cavour né Vittorio Emanuele. Ai piemontesi non rimase altro che accettare la situazione, non prima, però, di rinegoziare con Napoleone III il costo della guerra. Napoleone, che non era stato ai patti, poiché si era accordato direttamente con l’Austria, invece di addebitare l’intero costo della guerra, circa 360 milioni, chiese al Piemonte di pagare solo 60 milioni. I documenti non chiariscono fino in fondo lo strano comportamento di Napoleone III. È indubbio che delle forti, fortissime, pressioni esterne fermarono Napoleone, che credeva di avere Francesco Giuseppe in pugno, e obbligarono l’imperatore austriaco ad accettare le trattative di pace con le forze militari ancora integre. Tra queste pressioni, ci furono quelle di natura politica e militare da parte della Prussia, dell’Inghilterra e della Russia. Ma non furono le sole e le principali; bisogna tenere conto, dal punto di vista austriaco, anche della rivolta ungherese, delle divisioni tra i militari, tra i politici e tra i diplomatici, della situazione economica e finanziaria e, principalmente, degli interessi a questa legati >> 16 .
De Marco a questo punto nota l’enigmatica presenza di Alessandro Bixio, fratello del più noto Nino, e la collera mostrata nei suoi riguardi dal principe Girolamo Bonaparte, che fino a quel momento era stato suo amico. La faccenda si fa assai intrigante quando teniamo conto che Bixio era un uomo d’affari legato ai banchieri ebrei Rothschild e Péreire. Cavour lo conobbe personalmente durante un viaggio a Parigi nel 1852. Qui il nostro “statista” ebbe il privilegio di osservare con i suoi occhi la singolare rievocazione del miracolo dei pani e dei pesci messo in atto dagli “Illuminati” all’indomani del colpo di stato di Napoleone III: << I capitali sorgono da tutte le parti. La prosperità finanziaria è immensa >> scrisse Cavour, che a Parigi fu folgorato come San Paolo sulla via di Damasco. Fu Alessandro Bixio l’intermediario << che fece da tramite tra Cavour e gli ambienti bancari ebraici. In quei colloqui nacquero tutte le iniziative industriali, in particolare ferroviarie, come la Vittorio Emanuele, bancarie e finanziarie che caratterizzeranno i successivi sette anni del ministero Cavour, fino alla guerra con l’Austria >> 17 .
Ecco quindi come De Marco spiega il ruolo interpretato da Alessandro Bixio al termine della guerra: << gli interessi rappresentati dal Bixio vinsero su quelli militari e dinastici dei napoleonidi! Ecco alla conclusione dei progetti discussi a Parigi nel 1852 il controllore: la presenza di Alessandro Bixio. Gli effetti della sua presenza si videro subito >> 18 , intendendo con ciò l’armistizio sottoscritto a Villafranca tra Napoleone III e Francesco Giuseppe. Questo basta e avanza a spiegare il motivo della collera del principe Girolamo Napoleone nei riguardi di Bixio.
A questo punto l’attenzione di Carmine De Marco si sposta sulla situazione interna dell’Impero Asburgico: << La situazione finanziaria dell’impero austriaco, prima e durante la guerra con il Piemonte, dava origine alle più serie preoccupazioni. Il riflusso dall’estero di titoli austriaci, in corso dai primi del 1859, aveva accentuato il drenaggio delle risorse valutarie della Nationalbank che aveva dovuto sospendere i pagamenti in contanti, mentre l’aggio sull’argento saliva in maggio al 40 per cento e il corso dei titoli di Stato austriaci crollava a Francoforte da 81 fiorini in gennaio a 38 in aprile. Tutta l’economia del paese veniva dunque investita da gravi tensioni inflazionistiche, mentre la capacità di importazione risultava drasticamente ridotta, ed il ministro delle finanze Bruck doveva mettere mano alle riserve metalliche della Nationalbank, con grave danno del credito al paese, per procurare all’esercito le forniture necessarie. Già per queste ragioni era chiaro che lo sforzo bellico non avrebbe potuto protrarsi più a lungo >> 19 .
Le informazioni fornite da De Marco sull’attacco speculativo scatenato dalla finanza internazionale contro l’Impero asburgico si sposano perfettamente col quadro esposto nel capitolo precedente a proposito dell’opera di infiltrazione ad altissimo attuata dagli “Illuminati” per mezzo dei seguaci di sir Bowler-Lyton: << gli inglesi reclutarono, richiamandosi a un passato (spesso inventato) di comunanze nordiche e ideali paganeggianti, diversi esponenti dei Servizi, della diplomazia e dell’establishment austriaco […] Lo scopo, in principio, fu meramente economico e consistette, in buona sostanza, nell’aggiogamento delle borse valori e merci di Vienna >> 20 .
Lasciamo all’eccellente De Marco un primo tentativo di conclusione: << Quattro giorni dopo l’armistizio [!], il 15 luglio 1859, durante il primo consiglio dei ministri dopo la sconfitta militare, l’imperatore Francesco Giuseppe rendeva pubblico il famoso Manifesto di Laxenburg col quale si affrettava a promettere alla borghesia un sostanziale mutamento di rotta […] Di lì a poco il Regolamento industriale austriaco abrogava il regime delle corporazioni, introduceva la libertà del lavoro, dava l’avvio alla prima rivoluzione industriale dell’Austria. Gli ebrei di Vienna ed i protestanti di Germania ringraziarono. Quattro giorni dopo la battaglia di Solferino, la borsa austriaca ebbe un rialzo! In novembre l’imperatore Francesco Giuseppe approvò la proposta di abolire molte restrizioni residue imposte alle comunità ebraiche dell’impero. Istituì, prima della fine dell’anno il Comitato per il debito di Stato […] poiché concordava con il ministro delle finanze Bruck sulla necessità di rassicurare gli investitori stranieri. Considerazioni: Insomma, vendendo e ricomprando i titoli del debito pubblico austriaco, la grande finanza internazionale faceva la guerra e la pace! Per amore o per forza i grandi mercati si dovevano aprire ai grandi capitali. Che questo fosse il principale scopo nella guerra fatta da Napoleone (o fatta fare a Napoleone) all’Austria, è dimostrato dall’armistizio di Villafranca, senza giustificazioni militari da parte della Francia e dal manifesto di Laxenburg >> 21 .
La seconda conclusione tenteremo di formularla in autonomia, confrontando la seconda guerra d’indipendenza con la terza (1866).
Quest’ultimo, disastroso conflitto – così come ci viene descritto nella tradizionale ricostruzione di Arrigo Petacco 22 – si presentano parecchi punti interrogativi. Il primo: l’esercito sabaudo, ancora in gran parte integro malgrado la sconfitta di Custoza, si ritira senza opporre alcuna resistenza di fronte alla tumultuosa avanzata dell’esercito asburgico. Fu così che una sconfitta non irreparabile sul piano tattico – 5 delle 6 divisioni di Vittorio Emanuele II erano state battute, su un totale di 20 divisioni mobilitate – si trasformò in una sconfitta strategica di dimensioni inaudite: una ritirata strategica generale, che lasciava l’intera Pianura Padana alla mercé dell’invasore straniero. Scrive Petacco: << Vittorio Emanuele era ancora convinto che la battaglia non fosse perduta, così come l’arciduca Alberto (il comandante nemico) era convinto di non averla ancora vinta. Disgraziatamente, a non essere convinto, era il generale La Marmora il quale, spento, avvilito, con la mente confusa, si considerava sconfitto prima ancora di esserlo. Infatti, la guerra fu effettivamente perduta soltanto il 1° luglio quando l’arciduca Alberto, dopo avere attraversato il Mincio ed essersi spinto a cavallo fino al basso Oglio senza incontrare resistenza, si persuase di essere lui il vincitore. Nel frattempo La Marmora aveva diramato l’ordine di ripiegare dietro il fiume Oglio ed era costata fatica ai suoi subalterni convincerlo a fermarsi lì. Lui voleva addirittura ritirarsi dietro l’Adda. Così, dopo poco più di ventiquattro ore, finiva una guerra che era costata più sangue ai vincitori che ai vinti: 5.150 fra morti e feriti tra gli austriaci, 3.281 agli italiani >> 23 .
Il secondo punto interrogativo: il Regio Esercito non aveva un comandante in capo né qualcosa che potesse essere lontanamente paragonato a una catena di comando. E’ un fatto assolutamente anomalo anche agli occhi di un profano di cose militari come il sottoscritto. Di fatto il generale La Marmora si dimise dalla carica di Ministro della Guerra per assumere il comando in capo dell’esercito. Tale speranza venne però frustrata da Vittorio Emanuele, il quale non solo non rinunciò al comando nominale dell’esercito ma addirittura volle essere presente sul campo di battaglia. La Marmora, masticando amaro, dovette accontentarsi della carica di Capo di Stato Maggiore alla quale ambiva anche il generale Cialdini. Quest’ultimo fu messo al comando di 8 schierate a Sud del Po e gli furono lasciati ampi poteri decisionali. Di fatto a Custoza La Marmora trattenne presso di sé 6 divisioni del Regio Esercito lasciando cinicamente che altrettante divisioni agli ordini di Vittorio Emanuele II fossero fatte a pezzi dall’esercito asburgico. All’indomani della sconfitta al re, che gli chiedeva conto della sua condotta, La Marmora rispose in modo criptico: << Vostra Maestà ha giusto il dire, ma bisognerebbe sapere il tutto >> 24 . Lo stesso Petacco a questo punto scrive: << Quale fosse il << tutto >> , però, non lo spiegò >> 25 . Forse bisognerebbe rivolgere la domanda al signor Rothschild: lui, evidentemente, conosceva “il tutto” se vogliamo dar credito alla lettera dall’ambasciatore francese a Londra, Charles-Maurice de Talleyrand, nel 1830, e nella quale si trova chiaramente descritta la strategia della finanza sionista. Afferma l’ambasciatore: << i Rothschild non si fanno scrupoli, combattono senza mezze misure chi minaccia di intaccare il loro potere e non si lasciano fermare nemmeno dalle guerre, anzi. La loro capacità sono tali che riescono a essere al contempo i banchieri di Cavour e di Metternich e la loro spregiudicatezza è pari alla loro abilità >> 26 . Vi era poi il generale Cialdini, rivale di La Marmora: vistosi rifiutato l’incarico di Capo di Stato Maggiore, egli aveva tuttavia ottenuto il comando di 8 delle 20 divisioni dell’esercito, schierate sul basso Po, e ampia autonomia decisionale. Di fatto come La Marmora a Custoza aveva abbandonato alla sconfitta Vittorio Emanuele, così Cialdini attese con le mani in mano la sconfitta di re Vittorio Emanuele II e la ritirata di La Marmora malgrado con la poderosa massa di 8 divisioni dovesse fronteggiare forze nemiche ridicole. Appena seppe della sconfitta del re a Custoza e dell’imbelle ritirata del generale La Marmora – che di lì a poco si sarebbe dimesso – Govoni disobbedì all’ordine del sovrano di attraversare il Po e, inspiegabilmente, si ritirò a Modena con tutte le sue forze. Non prima, tuttavia, di aver scaricato tutte le responsabilità del disastro su La Marmora e di aver cercato l’autorizzazione dal ministro della Guerra Ignazio De Genova di Pettenago – il quale, da Firenze, se ne lavò le mani come Ponzio Pilato rispondendo: << a queste cose dovreste pensarci voi generali >> 27 . Infine c’erano Garibaldi e i suoi volontari, che però non erano inquadrati nell’esercito sabaudo, nel Trentino Alto Adige.
Il terzo elemento anomalo: la Regia Marina gettò la spugna non dopo la sconfitta subita a Lissa, ma addirittura ancor prima che si combattesse.  L’ammiraglio Carlo Pellion conte di Persano, comandante dell’Armata Navale, aveva tergiversato, cercando di evitare in tutti i modi di combattere anche in presenza di espliciti ordini del governo. Solo quando il ministro De Pretis, nel corso di un incontro personale, minacciò di sbarcarlo Persano si decise all’azione. I due comandanti in subordine erano gli ammiragli Vacca e Albini: il primo, scontento per essere stato scavalcato – a suo dire – proprio da Persano nel comando; l’altro perché gli era stato assegnato il comando delle navi più antiquate. Mal consigliato Vacca, Persano improvvisò un’operazione anfibia contro l’isola fortificata di Lissa che sfociò in una sconfitta clamorosa. Al comando della forza navale da sbarco vi era Albini, che si era già mostrato contrario al piano: infatti non tentò neppure lo sbarco, disobbedendo agli ordini. Una volta comparsa sulla scena la flotta austriaca, la situazione per Persano precipitò. Infatti Albini e Vacca, << rivelatisi renitenti ai suoi ripetuti ordini di intervenire nella battaglia >> 28 , lasciarono Persano e la sua squadra navale da sole a sostenere l’intero peso della battaglia. Malgrado le dure perdite, la superiorità numerica e qualitativa della Regia Marina restava così netta da rendere ancora possibile la vittoria. Ma Persano << come La Marmora di Custoza, si sentiva sconfitto prima di avere portato a termine la sconfitta >> 29 . Probabilmente l’ammiraglio Persano non avrebbe mai potuto immaginare il contenuto di  una << sconsolata lettera che l’ammiraglio asburgico Wilhelm von Tegetthoff scrisse a Emma Litteroth il 26 luglio 1866, ovvero meno di una settimana dopo quell’azione, mediante la quale spiegava, tanto per incominciare, che il rapporto di forze tra gli italiani e gli austriaci non era stato modificato dallo scontro. Pertanto la squadra di Pola resta in condizioni di inferiorità e, di conseguenza, il blocco italiano di Venezia continuava come prima […] Il preteso mancato sfruttamento del successo subito rimproveratogli, di conseguenza, non era, per il comandante della flotta austriaca, che il frutto di fantasie di << quell’accolita di scribacchini farisei, i quali legiferano a Vienna, seduti dietro a una stufa, in materia navale >> 30 .
In conclusione tanto a Custoza quanto a Lissa due episodi negativi, ma non decisivi, si tramutarono in sconfitte strategiche di vaste proporzioni e in dure umiliazioni solo a causa della mancata volontà di generali e ammiragli di combattere. Abbiamo ancora una volta la sensazione che altri interessi, diversi da quelli militari e politici, fossero in gioco: proprio come ipotizza De Marco in occasione della Seconda guerra d’indipendenza.
Alla fine manovre più diplomatiche che militari portarono all’annessione del Veneto: ceduto da Francesco Giuseppe a Napoleone III e da questi a Vittorio Emanuele II dopo un plebiscito farsa. Poiché il governo austriaco si era già rassegnato – già prima dell’inizio delle ostilità – a una simile soluzione, che però il governo italiano non aveva accettato, la Terza guerra d’indipendenza fu una guerra inutile sia per i piani dei Savoia sia per i destini dei popoli d’Italia. Essa non fu, tuttavia, senza conseguenze sotto altri punti di vista. Il governo italiano si era fortemente indebitato per preparare la guerra nella speranza che il nemico vinto avrebbe poi pagato pesanti indennità ai vincitori – come era già capitato al Regno del Piemonte, sconfitto, al termine della Prima guerra d’indipendenza. Quei debiti contratti con gli esponenti del mondo finanziario, su tutti i Rothschild e gli Hambro, andavano ora onorati: << L’Italia intera, quell’Italia contadina che raccoglieva la stragrande maggioranza della popolazione, ora stava tutta piangendo a dirotto dovendo pagare il conto delle costose spese militari sostenute per realizzare quel Risorgimento al quale era rimasta del tutto indifferente […] Cambray-Digny si era rivelato un così valido amministratore delle finanze della Real Casa che Vittorio Emanuele lo aveva imposto come ministro delle Finanze affinché risanasse anche le casse dello Stato […] Non potendo tassare i grandi patrimoni e le sinecure dei ceti privilegiati […] aveva alienato tutti i beni ecclesiastici ancora vendibili fino a quando non era intervenuto il Parlamento per fermarlo […] Ostinato comunque nel suo intento di raggiungere il pareggio del bilancio, raccolse altro denaro appaltando il monopolio dei tabacchi, come era già stato fatto per le ferrovie, a una società privata […] Nell’affare dei tabacchi, come era accaduto per l’alienazione dei beni ecclesiastici, oltre le banche straniere erano entrati in gioco anche i primi capitalisti italiani, fra i quali emergeva il livornese Pietro Bastogi, che già si era assicurato l’appalto delle ferrovie meridionali corrompendo deputati e giornalisti. Ma l’auspicato pareggio era ancora lontano e da vendere non c’era più nulla […] Il fantasioso ministro fiorentino […] non esitò infatti a sfidare l’impopolarità aumentando ancora le vecchie tasse e inventandone addirittura di nuove. Oltre all’imposta sulla successione […] quella sulle finestre […] ma il colpo di mano più odioso di Cambray-Digny fu il ripristino della << tassa sul macinato >> […] Contro questo << Governo non atto ad altro che a far l’esattore delle tasse >> come scrisse in quei giorni Garibaldi […] si scatenò la rabbia dei contadini che si sentivano provocati da quell’implacabile contatore posto davanti ai loro occhi che li obbligava a pagare in anticipo il misero frutto del loro sudore. Anche i mugnai, trasformatisi in forzati esattori, si unirono alla protesta che esplose dovunque […] La repressione, naturalmente, fu durissima. Il governo non esitò a proclamare i consueti stati d’assedio e affidò i pieni poteri al generale Cadorna il quale, per domare i rivoltosi di Parma, Reggio, Modena e Ravenna, non esitò a far scendere in campo l’esercito con il tragico risultato che rimasero sul terreno 250 dimostranti morti e un migliaio di feriti >> 31 .
Torniamo ora indietro all’ 8 ottobre 1859, quando a Torino, con la benedizione del “fratello in spirito” Cavour – rimasto scottato dalla recentissima Seconda guerra d’indipendenza, di cui si è detto – viene fondata la Loggia Ausonia: nasce così la massoneria contemporanea. Essa si ramifica rapidamente su tutta la penisola assorbendo precedenti società occulte o paramassoniche già esistenti e presenti spesso da lunga data. Appena costituita la massoneria italiana si pone sotto l’obbedienza del Grande Oriente di Francia. Secondo la descrizione che ne fa lo storico della massoneria Enrico Nassi << i motivi sono essenzialmente tre:
1.    quella francese è la massoneria più laica e compatta d’Europa. Teorizza la caduta del potere temporale dei papa […] Lo stesso Cavour, con linguaggio rituale, considera la Franc-maconnerie una << pietra angolare >> della sua strategia diplomatica. Non a caso il suo ambasciatore a Parigi è Costantino Nigra, un maestro elevato alla dignità del 33° grado del Rito adottato dai francesi;
2.    più di quella inglese, la comunione francese ha una consolidata tradizione di dinamiche interferenze col modo profano della politica, delle armi e della finanza […]
3.    i templi sono stipati di banchieri in grembiule di pelle e maglietto. Questo è un fatto di grande significato se si pensa che il sistema bancario francese, dominato dalla casa Rothschild, gran culla di venerabili << 33 >> , aveva l’egemonia assoluta del mercato europeo dei capitali dal quale dipendeva il regime finanziario del regno sabaudo. Stando all’archivio storico della Banca d’Italia, il debito estero sabaudo, contratto e gestito dai francesi, a cavallo del 1860 ammontava a 3 miliardi contro i nove del prodotto interno lordo: era un rapporto molto alto per quel tempo; ed oggi, rifacendo il verso al linguaggio massonico, possiamo considerarlo la << pietra angolare >> del debito pubblico che nel giro di centoventi anni è diventato una voragine. Non è tutto: la casata dei Rothschild – consociata a Londra con il gruppo degli Hambro, altra storica culla di << 33 >> - in quel periodo controllava l’83% dei pagamenti all’estero dei titoli di Stato e la quasi totalità delle vendite immobiliari sul mercato europeo, compresi i beni che venivano progressivamente espropriati agli ordini ecclesiastici. Ma soprattutto garantiva i prestiti esteri che consentivano a Cavour di portare avanti >> i suoi ambiziosi piani 32 .
Incrociando le informazioni di De Marco, Petacco e quelle di Nassi, si giunge alla paradossale conclusione che le guerre d’indipendenza abbiano avuto due obbiettivi: per prima cosa arricchire la finanza sionista mediante l’indebitamento degli Italiani; e inoltre quello di svendere l’intero patrimonio immobiliare della Chiesa cattolica in Italia, secondo un copione già visto al tempo della Rivoluzione francese. Attraverso le guerre d’indipendenza si affermò anche il potere di una nuova classe sociale, che andava a sostituire il clero e l’antica nobiltà: uomini politici corrotti, avidi banchieri e faccendieri della peggior risma – tutti riuniti all’interno dei templi massonici – assunsero il ruolo di esattori per conto della finanza sionista rappresentata dai già citati Rothschild, Hambro, Perrier e così via. Attraverso una gestione scriteriata della cosa pubblica, i nuovi tecnocrati tanto cari a Saint-Yves d’Alveydre avrebbero perpetuato di generazione in generazione la schiavitù del popolo italiano nei confronti dei banchieri stranieri.
Leggiamo ora l’analisi di Marco Pizzuti: << per conoscere veramente il senso del Risorgimento italiano è indispensabile innanzitutto riflettere sul comune denominatore che lega tutti (con rare eccezioni) i suoi principali protagonisti […] Gian Domenico Romagnosi, Giuseppe Mazzini, Francesco Crispi, Adriani Lemmi (banchiere massone del Risorgimento coinvolto nel famoso scandalo della Banca Romana del 1892), Camillo Benso Conte di Cavour, Filippo Buonarroti, Massimo D’Azelio, Luigi Luzatti (banchiere di origine ebraica che rivestì le più alte cariche di governo), Goffredo Mameli (di cui ci resta il famoso inno nazionale), Ernesto Nathan (Gran Maestro massone e finanziere ebreo), Silvio Pellico, Nino Bixio, Bettino Ricasoli, Guglielmo Oberdan, Vittorio Emanuele Orlando e Giuseppe Garibaldi furono tutti illustri membri della massoneria […] Ma la massiccia occupazione dei ruoli di potere da parte degli uomini della confraternita non si limitò solo all’arena politica e riguardò ogni aspetto sociale e culturale nazionale […] Giovanni Pascoli, Ugo Foscolo, Gabriele D’Annunzio, Giosuè Carducci, Vincenzo Monti, Niccolò Paganini, Carlo Pisacane e Vittorio Alfieri, tanto per citare solo alcuni tra coloro che hanno indossato ufficialmente il rituale grembiule massonico >> 33.
Pur partendo da dati diversi da quelli di De Marco anche Pizzuti si allinea alla nostra tesi secondo la quale il Risorgimento sarebbe un esperimento studiato a tavolino dagli “Illuminati”. Sentite le parole di Pizzuti a proposito di Cavour: << si può ragionevolmente supporre che tutta la politica savoiarda di cui era portavoce venisse decisa da personaggi come lord Palmerson (insigne massone) e A. Pike (Gran Maestro dell’ordine dedito al culto luciferiano gnostico e promotore dell’odio razziale) >> dal momento che << tutte le logge nazionali sono coordinate “dall’alto” (dai soliti finanzieri invisibili) per seguire un filo comune. Secondo l’Acacia Massonica Camillo Cavour […] prendeva direttamente ordini dai leader della fratellanza internazionale. Non può quindi apparire un caso il fatto che Cavour avesse stretti rapporti con i Rothschild e si fosse formato politicamente proprio in Inghilterra, il paese dove venne introdotto ai segreti dell’associazione di cui entrò a far parte in seguito >> ovvero la massoneria 34 .
La massoneria era un fenomeno sociale e politico che abbracciava l’intera civiltà occidentale dall’Europa al continente americano. Nel corso della nostra ricostruzione abbiamo però visto che nel XIX secolo il mondo finanziario internazionale impiegava la Contro-Chiesa come filtro tra sé stessa e il mondo della massoneria dalla quale provenivano quei “bassi iniziati” che avrebbero schierato le armate di tecnocrati necessarie a governare gli Stati moderni – ovvero a manipolare le masse – e la complessa macchina dell’economia capitalistica – ovvero a gestire il conflitto tra capitale, produzione e forza lavoro. A un’analisi superficiale parrebbe quasi che questa dimensione sia assente nella Storia del Risorgimento, trovandosi esso schiacciata tra l’ateismo militante della massoneria italiana e il fanatismo antimassonico della Chiesa cattolica. In realtà un filtro, uno schermo esiste anche in questo caso: la sua importanza, nei disegni degli “Illuminati”, è tale che se non ci fosse sarebbe stato necessario inventarlo. Come appunto fu. Stiamo parlando del “movimento carbonaro”.
Seguendo la ricostruzione di Pizzuti –  che si fonda, a quanto ci pare di capire, sull’autorità di Epiphanius – si può dire  che << La Carboneria […] sarebbe stata fondata nel 1815 dal massone genovese Antonio Maghella proprio per portare avanti lo stesso programma politico della rivoluzione francese. Organizzata in “Vendite” su vari livelli, secondo il classico schema massonico, essa operava in stretto contatto con i supremi consigli del 33° grado del Rito Scozzese, il cui vertice si chiamava appunto “Alta Vendita”, un collegio internazionale composto da quaranta membri. Nel 1847 si riunì a Strasburgo un Convegno Internazionale delle massonerie per preparare il piano rivoluzionario che avrebbe condotto alla nascita di una confederazione europea. Nel 1848 le frange insurrezionaliste passarono all’azione guidando e fomentando rivolte a Parigi, Berlino, Vienna, Praga, Milano, Venezia, Napoli e Roma. Ma è bene sapere che sia Giuseppe Mazzini quanto l’intero ordine dei carbonari appartenevano agli Illuminati di Baviera >>  35 .

A questo punto Pizzuti pare perdere il bandolo della matassa facendo un vago accenno alla fede di Mazzini nella reincarnazione, lì erroneamente attribuito a un non ben identificato culto massonico. In realtà nel XIX la massoneria si era distaccata dalla sua originaria dimensione spirituale – “magica” e “alchemica” direbbe Giorgio Galli – pur conservando intatto l’antico patrimonio simbolico e rituale 36 . Proprio per questo si aprirono gli spazi di manovra per l’azione sovversiva di una vera e propria Contro-Chiesa. La reincarnazione è un principio religioso proprio delle religioni indiane: innanzitutto l’Induismo e il Buddismo, ma anche la Società Teosofica di madame Blavatsky. Erano queste le misteriose credenze religiose di Mazzini? Ancora Pizzuti, quasi inavvertitamente, ce lo conferma parlando della collaborazione tra Mazzini e Anne Beasant, che succedette alla Blavatsky alla guida della Società Teosofica. 
Un altro accenno è degno di essere maggiormente investigato: << Mazzini inoltre aveva come stretto collaboratore l’israelita Henry Mayer Hyndman, un marxista a capo dell’associazione chiamata The National Socialist Party >> 37 . Poiché l’israelita Hyndman figura tra i fondatori della Fabian Society, uno dei centri motori della cospirazione comunista 38 , possiamo dunque additare nelle società carbonare quel secondo livello occulto che si celava dietro alla massoneria italiana. Ciò parrebbe confermato, indirettamente, dalla ben nota amicizia di Mazzini col grande “illuminato” americano Albert Pike.
Resta sempre sullo sfondo, naturalmente la figura inquietante di James Rothschild, la cui avidità di denaro era pari alla vanagloria di Camillo Benso conte di Cavour e re Vittorio Emanuele II. Ne fece le spese anche il Regno delle due Sicilie, che era la preda più grossa su cui quella banda di banditi, ora nominati per nome e cognome, potessero mettere le mani. Marcello d’Orta scrive: << Alla vigilia dell’Unità d’Italia, circolavano nella penisola 667 milioni di ducati, così divisi: 22 in Lombardia, nel Parmense, nel Modenese e a Venezia, 85 in Toscana, 90 negli Stati Pontifici, 27 nel Regno sardo-piemontese, e 443 nel Regno delle Due Sicilie. Dopo l’impresa di Garibaldi, la quasi totalità della ricchezza “napoletana” andò al Piemonte, e Camillo Benso conte di Cavour potè saldare i suoi enormi debiti con i Rothschild. Il Regno borbonico fu depredato di quasi tutte le sue sostanze (il Banco di Napoli aveva una riserva aurea superiore di quasi quattro volte a quelle di tutte le altre banche italiane messe insieme) >> 39 .
Nel 1860 tanto per Cavour quanto per Vittorio Emanuele II era dunque questione di vita o di morte impadronirsi dell’oro borbonico. Per evitare che la situazione degenerasse in un conflitto internazionale l’intera operazione sarebbe stata gestita dal Grande Oriente d’Italia. Proprio per questo Enrico Nassi definisce la spedizione dei Mille come la << “prima grande interferenza profana” di una lobby massonica nella storia d’Italia, ideata e gestita nel segreto del tempio >> 40 . Questo storico della massoneria, già più volte citato nel nostro lavoro, cerca di ricostruire sulla base dei << si racconta >> e di << un’esigua manciata di documenti >> il ruolo avuto dal Grande Oriente d’Italia nell’avventura garibaldina depurandola dalle scorie di una distorta storiografia, che fu immediatamente fabbricata dalle élite al potere come mito autocelebrativo. Scrive Nassi che l’azione del GOI << si è snodata lungo quattro direttive:
-          la mediazione dei contrasti ideologici, risolta con l’emarginazione politica e militare dell’ala più intransigente, repubblicana e anticlericale […] Alla riuscita dell’operazione contribuì la cooptazione nel vertice massonico di alcuni mazziniani iniziati durante l’esilio a Londra e degli uomini più in vista nella “Società nazionale” di Daniele Manin, disposti a schierarsi con casa Savoia purché facesse sua la causa italiana […] non indifferente, infine, l’appoggio dei quadri più dinamici della borghesia imprenditoriale, che in un mercato interno senza frontiere vedevano la maggior occasione di sviluppo e di allineamento dell’Italia allo standard dei paesi più avanzati d’Europa;
-          la raccolta dei << mattoni >>, realizzata con significative (ma scarse) offerte volontarie e alimentata nel tempo da un buon flusso di finanziamenti bancari e di beni e servizi da parte delle maggiori industrie cotoniere lombardo-piemontesi, dei costruttori di strade e ferrovie e di fabbricanti d’armi. Questo è stato il lavoro più facile, giacché a favorirlo, oltre alla passione civile che legava i quadri massonici e quelli della classe dirigente, c’era il governo, ufficialmente contrario all’impresa, ma largo di promesse sul piano delle forniture e delle commesse statali. Mancavano le navi, ma l’armatore Raffaele Rubattino, << patriota genovese iniziato all’Arte Reale >>, provvide a fornire il Piemonte e il Lombardo, le due navi più veloci di quelle avute in concessione dal governo;
-          un’azione diplomatica parallela a quella del governo per stabilizzare l’adesione francese. Ma in particolare per evitare contraccolpi sul versante inglese; e questo è un altro colpo andato a segno come dimostra l’atteggiamento assunto dalla flotta della regina Vittoria nel momento più cruciale dell’impresa garibaldina […]
-          una costante pressione sullo stato maggiore dei Mille, quasi al completo di obbedienza massonica, per impedire che Garibaldi, galvanizzato dal successo dell’impresa, mettesse il governo di fronte al fatto compiuto di una marcia su Roma. Questa deve essere stata la mediazione più difficile […] >> 41.
A proposito della posizione britannica nei confronti della spedizione dei Mille Nassi cita l’aneddoto della Royal Navy, postasi a schermo tra i garibaldini che stavano sbarcando a Marsala e la flotta borbonica: quest’ultima avrebbe potuto spazzare via gli invasori con poche cannonate, ponendo immediatamente fine all’avventura di Garibaldi ma fu trattenuta, al momento decisivo, dal timore di provocare un grave incidente diplomatico con la Gran Bretagna. Ma si trattava di ordini provenienti dal Governo inglese o da una qualche realtà di potere occulta con sede in Gran Bretagna? Secondo Aldo Mola << la spedizione dei Mille si svolse dall’inizio alla fine sotto tutela britannica o, se si preferisce, della massoneria inglese >> 42 . Le prove parrebbe averle trovate Giulio Vita, che afferma: << studi in archivi e su periodici di Edimburgo mi hanno permesso di rilevare e confermare il versamento a Garibaldi di una somma veramente ingente, durante la sua breve permanenza a Genova, prima che la spedizione sciogliesse le ancore. La somma riferita con precisione è di tre milioni di franchi francesi. Questo capitale, tuttavia, non venne fornito a Garibaldi in moneta francese, bensì in piastre d’oro turche >> 43 . Ecco quindi come fu possibile al Grande Oriente d’Italia di integrare le magre offerte dei “fratelli”, i << mattoni >> di cui ci parlava il Nassi.
L’intera spedizione dei Mille si risolse così in una colossale farsa, proprio come si rivelerà in seguito la Terza guerra d’indipendenza. Impressionante è la testimonianza del cronista di parte borbonica Giacinto De Silvio (1814-1867), che denunciava << la trama di imbrogli e corruzioni con cui inglesi e piemontesi si comprarono tutto il governo di Ferdinando II, compreso il primo ministro Liborio Romano e larga parte degli stati maggiori militari e della burocrazia, che di fatto disarmarono un esercito e una marina tra le più potenti della penisola di fronte a mille volontari disomogenei e male armati >> 44 . Tra questi vi era il capitano di fregata Guglielmo Acton, che a Marsala nel 1860, come ufficiale borbonico, si rifiutò di sparare sui garibaldini e poi cambiò bandiera, partecipando al cannoneggiamento nel 1861 dell’ultima roccaforte dei Borboni: Gaeta. Acton farà poi una brillante carriera nella Regia Marina, che avrà il suo fiore all’occhiello nella vergognosa sconfitta di Lissa. Che dire poi di quel generale Landi che a Calatafini avrebbe potuto spazzare via in cinque minuti i garibaldini, ma che inspiegabilmente ordinò la ritirata? << Si scoprì in seguito che il generale Landi aveva già in tasca una fede di credito, cioè un assegno con cui qualcuno aveva, come dire, “agevolato” il suo passaggio alla causa dell’unità d’Italia. L’ininterrotta catena di successi di Garibaldi si spiega anche così. A differenza dei sottufficiali e dei soldati di Francesco II, lo stato maggiore dell’esercito borbonico con poche eccezioni si era già fatto corrompere prima dell’arrivo dei volontari garibaldini. Emissari piemontesi hanno da tempo preparato il terreno allo sbarco in Sicilia avvicinando ufficiali e funzionari borbonici. Hanno loro offerto promozioni nel futuro stato sabaudo e ingenti ricompense in piastre turche, una valuta all’epoca facilmente convertibile e usata in tutti i porti del Mediterraneo >> 45 .
Il saggista Lorenzo Del Boca precisa che la piastra turca era la moneta commerciale di allora, ma era anche la << moneta delle tangenti, perché impediva di indicare da dove venivano questi soldi e quindi quale malaffare c’era dietro >> 46 .
 Di certo il denaro investito nella spedizione dei Mille fu un ottimo affare secondo lo storico e saggista Luciano Salera: << Quando è stata fatta l’unità d’Italia il nuovo capitale monetario, il nuovo monte di denaro liquido in monete d’oro che andò a formare il patrimonio della nuova Italia, per oltre il 70% era formato da denaro che veniva dal Regno delle Due Sicilie >> 47 .
Una volta conseguita l’unità politica della Penisola, la già ricordata Loggia Ausonia di Torino dovette accelerare i tempi per condurre a unità anche le varie frange della massoneria italiana. A questo punto, pur calibrando attentamente le parole, Nassi rivela un aspetto di grande importanza per comprendere la differenza tra la massoneria nostrana e quella dei Paesi anglo-sassoni: << Quello che mancava all’Ausonia era un contesto esoterico proprio dell’Arte Reale, benché nelle Logge fossero d’obbligo la gestualità e il linguaggio, l’abbigliamento, gli strumenti e i gioielli rituali importanti da Parigi e da Londra. Oppure reinventati sull’onda della memoria e di una manualistica mal tradotta e comunque troppo ermetica: cioè un cocktail di modelli di cui nessuno, o quasi, conosceva il valore e il significato simbolico. Di conseguenza la ritualità aveva una sola funzione pratica: quella che gli psicologi indicano come un’esclusiva forma di assoggettamento del neofita, tanto più forte e vincolante quanto più intenso è il mistero esoterico della cerimonia d’iniziazione e della successiva obbedienza >> 48 . Da qui il timore degli spiriti più inquieti che gli interessi profani finissero per prevalere all’interno del Tempio, come poi sarà.
Un altro problema sul tavolo era la ricerca di una figura autorevole a cui affidare le redini del Grande Oriente d’Italia e per mezzo del quale identificare, in modo ancora più forte, massoneria e Risorgimento. Serviva un testimonial, come diremmo oggi, e perciò fu fatto un casting. Il primo candidato ad essere scartato fu Garibaldi, che malgrado la fresca promozione al 33° grado era considerato imprevedibile e ingovernabile. Il “fratello in pectore” Cavour, ormai vecchio e malato, declinò l’invito , sostenendo piuttosto la candidatura di Costantino Nigra. La sua gran maestranza durò poco e gli successe il siciliano Filippo Cordoba. Vero e proprio tecnocrate nel senso descritto da Saint-Yves d’Alveydre, Cordoba viene descritto dal Nassi come un recordman << per l’incredibile quantità di cariche e di strutture operative che gestiva in contemporanea, dominando una piramide di potere politico-amministrativo di proporzioni gigantesche >> 49 .
Poiché al peggio non c’è mai fine, a Cordoba succederà Adriano Lemmi che merita una trattazione separata.


Note
1.    

1. I passi dell’opera di De Marco, Revisione della Storia dell’Unità d’Italia di seguito citati sono stati consultati su http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Personaggi/Cavour01.htm in data 30/07/205. 
2. Ibidem
3. L’espressione “personale straniero di rinforzo” qui utilizzata è stata presa in prestito da Solange Manfredi, autrice del libro Psyops.
4. De Marco, op. cit. 
5. Ibidem
6. E. Nassi, La massoneria in Italia, Newton, Roma 1994, p. 25
7. De Marco, op. cit.
8. Ibidem.
9. Ibidem.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ibidem.
14. Ibidem.
15. Ibidem.
16. Ibidem.
17. Ibidem.
18. Ibidem.
19. Ibidem.
20. E. Cernuschi, Battaglie sconosciute. Storia riveduta e corretta della Regia Marina durante la Grande Guerra, In edibus, 2014, pp. 146-147
21. De Marco, op. cit.
22. A. Petacco, O Roma o morte. 1860-1870: la tormentata conquista dell’unità d’Italia, Mondadori, 2010.
23. Ibidem, p. 92-93.
24. Ibidem, p. 91
25. Ivi.
26. M. Pizzuti, Rivelazioni non autorizzate. Il sentiero occulto del potere, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2013, p. 87.
27. A. Petacco, op. cit. , p. 94.
28. Ibidem, p. 102.
29. Ivi.
30. E. Cernuschi, Battaglie sconosciute. Storia riveduta e corretta della Regia Marina durante la Grande guerra, In edibus, pp. 20-21.
31. A. Petacco, op. cit. , pp. 131-134 
32. E. Nassi, op. cit. , pp. 25-26.
33. M. Pizzuti, Rivelazioni non autorizzate. Il sentiero occulto del potere, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2013, pp. 79-80
34. Ibidem, p. 80. Il riferimento ad Acacia Massonica si trova a p. 81 del numero febbraio / marzo 1949.
35. Ibidem, p. 83.
36. In realtà qui Pizzuti sembra fare confusione tra le idee gnostiche di quel mondo alchemico e magico da cui è figliata la massoneria e il vero e proprio culto gnostico che accomuna i vari elementi della Contro-Chiesa.
37. M. Pizzuti, op. cit. , p. 83
38. Epiphanius, Massoneria e sette segrete. La faccia occulta della storia, Fondazione Testimonium, pp. 177 e sg.
39. M. Pizzuti, op. cit. p. 83
40. E. Nassi, op. cit. , p. 28.
41. Ibidem, pp. 30-31.
42. Citato in M. Pizzuti, op. cit. , p. 81
43. Ivi.
44. Ibidem, pp. 83-84
45. Ibidem, p. 85.
46. Ibidem, p. 86.
47. Ivi.
48. E. Nassi, op. cit. , p. 33.
49. Ibidem, p. 35

L'ARTICOLO CHE AVETE LETTO PROVIENE DAL SAGGIO MUSSOLINI E GLI "ILLUMINATI" DI ENRICO MONTERMINI.
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