Il golpe massonico.
Nel
1847 Mazzini incaricò un giovane livornese di organizzare a Costantinopoli un gruppo
di patrioti a lui fedele e di raccogliere fondi per i suoi piani cospirativi.
Questo giovane si chiamava Adriano Lemmi (1822-1906).
Negli
anni successivi troviamo Lemmi implicato in ogni genere di complotto ordito dal
Mazzini: nel 1849 organizza l’imbarco dei volontari per difendere la Repubblica
romana, nel 1853 è tra i promotori dei moti di Genova, nel 1857 è il
finanziatore della spedizione di Piscacane e nel 1860 è tra gli organizzatori
della spedizione dei Mille. Una simile carriera da cospiratore gli varrà la
definizione di << banchiere della
rivoluzione italiana >> coniato da Guerzoni. Divenuto amico di
Garibaldi, resta coinvolto nell’oscuro affare delle ferrovie meridionali a cui
si è accennato nel precedente capitolo.
Lemmi
godette della protezione di Mazzini, che rivestiva un ruolo di primo piano
all’interno del sistema occulto della Contro-Chiesa. E’ significativo che il
banchiere livornese ricevesse incarichi di altissimo livello in ambito
finanziario all’interno della cospirazione carbonara prima ancora di approdare
alla massoneria nel marzo 1877. Anche le modalità di adesione alla massoneria
erano eccezionali: vi entrò infatti come membro della Loggia di Propaganda, una
speciale Loggia del G.O.I. che raccoglieva i membri dell’establishment
politico, economico e culturale del Regno d’Italia. Pare addirittura che
l’ideatore di questa struttura occulta fosse lo stesso Lemmi: << Segretezza, lealtà e sinergismo rappresentavano
insomma un trinomio di difficile simbiosi. Per risolvere il teorema, dunque,
non restava che ricorrere a strumenti non istituzionali, come quello di coprire
un’intera Loggia, lasciando in esclusiva al Gran maestro la responsabilità
della << tegolatura >> protettiva e il potere dell’iniziazione
<< sul filo della spada >>. La soluzione era ardita, ma Lemmi seppe
ben presentarla: così, con il determinante appoggio di Crispi, nel marzo 1877
veniva creata a Roma la << Loggia di Propaganda Massonica >> ,
madre di quella del venerabile Licio Gelli, detta poi << P2 >> per
comodità di linguaggio. La massoneria aveva infine trovato una sede
istituzionale in cui trattare in segreto gli interessi profani attraverso
riunioni – o scambi di messaggi subito bruciati – tra singoli affiliati o
gruppi di specializzazione. Sino alla caduta di Crispi, questa Loggia ha
rappresentato il maggior centro di potere italiano >> 1.
La
carriera massonica di Lemmi è troppo rapida per non far credere che questa
militanza servisse da copertura per celare i suoi mandanti e i propositi di
loro. Infatti egli, ancora neofita, viene subito chiamato a far parte della
commissione finanziaria del G.O.I. e poco dopo (maggio 1879) viene eletto Gran
tesoriere. Non basta nemmeno l’amicizia stretta con l’eroe nazionale Giuseppe Garibaldi
e con l’astro nascente della politica Francesco Crispi, entrambi insigniti del
grado << 33 >> della massoneria, a spiegare una carriera così
sfolgorante: a quanto pare si guadagnò il favore di numerose Logge provvedendo
di tasca propria – o così almeno riuscì a far credere – al pagamento delle
quote associative arretrate. Come commentare l’episodio? Simonia in salsa
massonica? Probabilmente sì. Certo dietro il banchiere livornese vi erano
sponsor molto “convincenti”. Intendiamo dire, in altre parole, che Lemmi era un
uomo della finanza internazionale che Mazzini aveva messo a diretto contatto
con gli “Illuminati” e con la Contro-Chiesa. Dopo aver finanziato il
Risorgimento gli “Illuminati” – in testa a tutti: Rothschild, Hambro, Perier e
Oden – miravano ora a consolidare la propria influenza sull’Italia unitaria in
vista di nuovi affari, di cui parleremo a breve. Per fare questo essi
necessitavano di schiere di tecnocrati addestrati ovvero dei bassi iniziati di
cui scriveva, in quegli stessi anni, Saint-Yves d’Alveydre. Ecco quindi la
convenienza ad appaltare alla massoneria locale la gestione della cosa
pubblica, dell’economia e della cultura. Ecco quindi la necessità di mettere un
proprio uomo di fiducia alla guida dell’ordine. Poiché gli affari, piuttosto la
fede, cementavano l’istituzione massonica italiana, fu scelto un banchiere:
egli era l’uomo giusto per corrompere un’istituzione che era in vendita al
migliore offerente. Per queste ragioni Lemmi viene eletto Gran Maestro del
Grande Oriente d’Italia il 17 gennaio 1885. Codesta maestranza, durata
ininterrottamente fino al 1896, lascerà un’impronta indelebile nella storia
della massoneria.
Scrive
Nasi: << il banchiere Lemmi
passava, e non senza ragione, come un mago della finanza e dell’organizzazione.
Collegato con le maggiori centrali finanziarie d’Europa, aveva una rete di
relazioni che pochi in Italia potevano vantare. Era ascoltato a corte e nel
governo. Insomma si muoveva tra affari e politica come una sorta di eminenza
grigia: ed è proprio per questo motivo che nel 1885 le Logge gli affidarono la
riorganizzazione del Grande Oriente e il risanamento delle finanze >>
2.
Di
fronte alla profonda crisi del G.O.I. , dimostratosi incapace di mediare tra le
due anime storiche della comunione – quella democratico-rivoluzionaria e quella
liberale-conservatrice – Lemmi fa una netta scelta di campo e in appena due
anni cambia volto alla massoneria: espelle i leader della Sinistra
rivoluzionaria e sposta in alto la base sociale dell’organizzazione con
l’iniziazione dei quadri medio-alti dei ceti emergenti. In questo modo la
massoneria si afferma come occulto <<
partito della borghesia >> secondo la celebre definizione di Gramsci.
Secondo
Fulvio Conti << Egli concepì infatti
la massoneria come uno strumento per orientare l'opinione pubblica,
condizionare il ceto politico e mobilitare la società civile al fine di
rafforzare lo Stato nato dal Risorgimento, emarginare la Chiesa e le
organizzazioni cattoliche, realizzare una serie di riforme sociali e politiche
di schietta matrice laica e progressista >> 3.
Mario
Celi afferma che Lemmi << fu il
primo a intuire l’importanza di avere a propria disposizione una loggia coperta
per manovrare la finanza pubblica stando dietro il palcoscenico. Il suo
programma massonico era semplice: via dalle logge i poveracci e i pensatori, l’obbiettivo
doveva essere la conquista del potere: “Chi è al governo degli Stati o è nostro
fratello o deve perdere il posto”. La stessa filosofia che un secolo più tardi
avrebbe ispirato il << fratello >> Licio Gelli >> 4.
Durante
la maestranza di Lemmi erano addirittura trecento i parlamentari iscritti alle
Logge. Il loro apporto fu decisivo per il golpe silenzioso attuato dall’ordine.
Come scrive Nassi, << non è quindi
casuale che, nel 1889, nel primo governo Crispi si contassero, oltre al
premier, almeno cinque ministri e nove sottosegretari affiliati alla
massoneria. Lo sbarco nel governo, che Adriano Lemmi si era posto come
obbiettivo dalla sua iniziazione, è un successo che forse non ha precedenti
nella storia d’Europa. Tuttavia, come corpo mistico di una fratellanza universale,
la massoneria italiana tocca il suo livello più basso >> 5.
Nasce così il primo e unico governo dichiaratamente massonico della Storia
d’Italia, guidato per di più da un venerabile << 33 >>, e posto
completamente agli ordini del Grande Oriente d’Italia. Dietro il quale è appena
possibile individuare i contorni di un altro potere occulto, la grande finanza
cosmopolita.
Il
golpe massonico era quindi cosa fatta: <<
l’eccessivo appiattimento di Adriano Lemmi (e della Loggia coperta) sulla
politica e sulla leadership di Crispi ha infatti come risultato un progressivo
declassamento delle ambizioni di supremazia morale e un massiccio processo di
secolarizzazione dei templi. In conclusione non decade solo l’antica carica di
spiritualità, ma il Grande Oriente, di riflesso, come si è detto, non sarà più
neppure, come al tempo del Risorgimento, un dinamico << centro di
mediazione d’interessi e di contrasti >>. Diventa piuttosto un braccio
operativo >> 6.
Il
modello di Crispi era il cancelliere tedesco Otto von Bismark. Proprio come lui
lo “statista” siciliano intendeva governare il Paese con piglio autoritario e
si poneva ambiziosi obiettivi, <<
sfidando, all’occorrenza, pure il potere del papa e delle più agguerrite frange
del radicalismo libertario >> 7. Anziché partire dai tanti
problemi della popolazione, Crispi vedeva nella gente comune uno strumento per cogliere
un fine più alto: un ideale astratto che non poteva non essere suggerito dai
poteri forti sulla base di un calcolo di interesse. Il suo progetto era
trasformare il Regno d’Italia in una grande potenza sullo scacchiere
internazionale, proprio come Bismark aveva fatto con la Prussia.
Il
primo punto del suo programma consisteva in un’operazione culturale ossia
nell’eludere il problema dell’identità nazionale tra i popoli della Penisola
che il progetto mondialista aveva unito a forza. Per “fare gli italiani” Crispi
intendeva nazionalizzare le masse. Occorreva ottenere << il consenso delle classi medie >> attraverso
<< un inedito culto della
patria-Stato e quindi con una nuova interpretazione dei valori e dei simboli
più aggreganti del Risorgimento. In sintesi, si trattava di riscrivere
settant’anni di storia per caratterizzare in chiave nazionalpopolare tutte le
celebrazioni del processo unitario >> 8. L’ubriacatura
nazionalista serviva ad eludere anche un altro problema: quello dell’educazione
civica del cittadino, della sua preparazione ad agire come membro di una
comunità di individui liberi, uguali e responsabili: la soluzione proposta era
quindi un rigido conformismo agli slogan, ai simboli, alle immagini e ai
rituali politici inventati di sana pianta dai discepoli di Lemmi. Un altro
aspetto era il processo di revisione storica che vedeva nel “garibaldino”
Crispi l’ultimo sopravvissuto di una generazione di eroi, il momento di sintesi
delle diverse anime del Risorgimento. Premesso che la Storia la scrivono i
vincitori, l’aspetto anomalo dell’intera vicenda risiedeva nel fatto che << di questo processo di revisione
<< era a un tempo protagonista, narratore e giudice >> un leader
politico, un moderno Cesare (quale appunto Crispi voleva essere) >> 9.
Probabilmente Mussolini sarà il più attento discepolo di Crispi.
Ricapitolando:
il Grande Oriente d’Italia sotto la maestranza di Lemmi sacrificava i propri
valori spirituali – ovvero il contatto con le sue radici magico-alchemiche –
alla tentazione del potere; ma contemporaneamente proiettava verso la società
civile i riti e i simboli di una religione civile, inventata a tavolino e contrapposta
alla religione cattolica e all’ideologia marxista. I templi massonici
diventavano così il sancta sanctorum del potere, inaccessibile ai profani, e da
essi uscivano i sacerdoti che predicavano la nuova dottrina del nazionalismo.
Orchestrando
il consenso con questi metodi, i tecnocrati formati dal Grande Oriente d’Italia
tentavano di mobilitare le masse per <<
trasferire al popolo il potere d’iniziativa nella costruzione e nella gestione
dello Stato prima ancora che il ciclo unitario si concludesse con la
liberazione di Trento e Trieste; ben consapevole, ad ogni modo, che ciò andava
fatto a scapito del primato di casa Savoia e a tutto vantaggio delle punte più
avanzate della borghesia e dell’ala moderata del movimento operaio. In definitiva,
la sua (di Crispi) era la proposta complessiva di un nuovo contratto sociale il
cui fine era la trasformazione del paese, condizione chiave per ascendere al
rango di grande potenza, forte e temuta nello scacchiere internazionale e
infine rivale di rispetto nella corsa alle colonie, in Africa anzitutto
>> 10.
Malgrado
la formale alleanza con Berlino e Vienna, vi era il ricordo delle recenti
guerre d’indipendenza e il problema delle “terre irredente” a turbare le
relazioni con l’Impero Austro Ungarico. L’alleanza con l’antico nemico veniva
quindi vissuta con imbarazzo dall’intera classe politica italiana, re Umberto
compreso. Era venuta a mancare anche la tradizionale alleanza con la Francia,
dal momento che le mire di Crispi si focalizzavano sulla Tunisia e il Corno
d’Africa ambite anche dai francesi. Il venerabile “33”, allora a capo del
governo, scatenò una guerra doganale nei confronti della Francia forse per
motivi propagandistici: ne pagò dazio l’intero Paese, che subì un immediato
crollo delle esportazioni. La sua politica estera, ambiziosa e bellicosa,
veniva portata avanti con estrema rudezza fino al limite della degenerazione
dei rapporti diplomatici. Ma a chi giovava tutto ciò? Non certo all’Italia,
alla quale avrebbe fatto più comodo una politica più concentrata verso la
crescita economica e i problemi sociali.
Nella
seconda metà dell’Ottocento si stava verificando << una fase oggettiva di declino della piazza francese dove
tradizionalmente lo Stato italiano collocava i suoi titoli e negoziava prestiti
e investimenti >> 11. Cosa era accaduto? Il 15 novembre
1868 lo spregiudicato James de Rothschild, il finanziatore di Napoleone III e
Cavour, era morto. Alla guida del ramo francese gli succedeva il figlio
Alphonse. Due anni dopo la guerra franco-prussiana si concluse con il trionfo della
Germania appena unificata da Bismark. Nel giro di poche settimane Napoleone III
si era arreso con tutta l’armata a Sedan. Alphonse de Rothschild avrebbe potuto
trattare con Bismark per la liberazione di Napoleone III, ma decise
diversamente: probabilmente l’imperatore aveva fatto il suo tempo e poteva ora
uscire di scena in previsione di nuove e ancor più vantaggiose speculazioni
usuraie. Poiché i tedeschi si erano occupati del lavoro sporco, la Terza
Repubblica poteva sorgere sulle ceneri dell’impero come una creatura del Barone
Rothschild. Nella principesca residenza del banchiere alle Ferriers
alloggiavano allora Guglielmo I, Bismark e i vertici dello Stato Maggiore
tedesco. Accettarono di lasciare Parigi solo dopo il pagamento di duecento
milioni di franchi, che Rotschild pagò per rientrare in possesso di casa sua, ma
sotto forma di prestito al governo francese, che quei quattrini non li aveva.
Dalla sua nuova residenza di Versailles Bismark chiese ora 31 miliardi franchi
a titolo di risarcimento per le spese di guerra: << Alphonse trattò di persona e alla fine si accordò per la
cifra, comunque esorbitante, di cinque miliardi. Quasi venticinque miliardi di
euro attuali! […] anche se Alphonse riuscì ad assicurarsi buona parte di quel
prestito (considerato il più grande affare finanziario del XIX secolo), le
nuove banche per azioni, nate nel frattempo per contrastare il potere dei
Rothschild, si riunirono in una coalizione per strappare la quota più alta
possibile della somma da prestare. Così, secondo Bouvier, cominciò in quel 1873
il declino relativo dei Rotschild francesi. Che continuarono a crescere, ma più
lentamente di prima [...] Quando tutto ebbe termine, le finanze della neonata
Terza Repubblica francese erano ormai definitivamente nelle mani del Barone de
Rothschild >> 12.
Gli
affari dei Rothschild in Inghilterra erano di vecchia data: nel 1840 la “N.M.
Rothschild & Sons” era già la principale fornitrice della Banca
d’Inghilterra e dal 1852 otteneva la gestione della zecca reale. Nel 1857
Alphonse de Rothschild aveva rafforzato i legami tra il ramo francese e quello
inglese della famiglia sposando la figlia di un cugino inglese di suo padre. I
risultati non mancarono di farsi sentire. Infatti in tutta Europa furono
racimolate colossali ricchezze, che attraverso la City di Londra venivano dirottate
in ogni angolo del mondo ove la Gran Bretagna era disposta a fare da cane da
guardia agli investimenti. Del resto a Londra il potere politico era nelle mani
di Benjamin Disraeli, un avvocato israelita di fede cristiana, mentre quello
finanziario nelle mani di Lionel Rothschild, che era a capo del ramo inglese
del casato ed era compagno di partito di Disraeli. Fu Lionel Rothschild nel
1875 a dare assistenza finanziaria al Governo inglese, presieduto proprio da
Disraeli, nell’acquisizione delle azioni del canale di Suez, che era stato
inaugurato nel 1869. A tale atto fece seguito l’occupazione militare inglese
dell’Egitto nel 1882. Con ciò gli investitori francesi, che erano stati i
principali promotori della Compagnie universelle du canal maritime de Suez,
divennero junior partner della finanza inglese e i Rothschild guadagnarono
l’eterna benevolenza di Sua Maestà britannica.
Da
quel momento il canale di Suez diveniva essenziale nella strategia britannica
di controllo della rotta per le Indie. Di conseguenza l’establishment politico
ed economico inglese aveva tutto l’interesse a contrapporre le ambizioni del neonato
Regno d’Italia alla Francia, l’unica potenza europea che potesse competere con
l’Inghilterra nella conquista di colonie e rotte commerciali.
Alla
City di Londra i Rothschild entrarono in società con quel Cecil Rhodes, che fu
il primo governatore della colonia del Capo e uno dei promotori della
segretissima Fabian Society. Da questo incontro nacque la De Beers, che col
supporto del Regno Unito si impadronì nella maniera più brutale dei giacimenti di
diamanti del Sud Africa. Per effetto della spietata conquista delle repubbliche
boere del Traansval e dell’Orange, la City di Londra alla fine dell’Ottocento
si risollevò dal precedente declino. La De Beers mantiene tuttora il controllo
del mercato internazionale dei diamanti.
I
Rothschild investirono anche in molte miniere di rame, piombo, ferro e zinco.
Ottennero inoltre il monopolio del mercurio in Spagna. Avevano messo le mani
sui colossali giacimenti di nichel della Nuova Caledonia. Avevano fondato la
Caspian and Black See Petroleum (Bnito), che poi diventerà la Royal Dutch Shell
e sarà una delle famose “sette sorelle” monopoliste del mercato mondiale del
petrolio: la Bnito controllava allora i pozzi di petrolio di Baku come abbiamo
già visto. Così i Rothschild tendevano ad assumere il controllo del mercato
mondiale delle materie prime all’interno del contesto della seconda rivoluzione
industriale.
Alla
luce di queste affermazioni non stupisce il declino della piazza francese, poiché
i capitali erano investiti con maggior profitto altrove. Tutto ciò accadeva mentre
la strategia di Crispi rendeva necessario <<
un imponente drenaggio di capitali, in Italia e all’estero, per realizzare un
organico e ambizioso programma di investimenti teso a modernizzare il
sistema-paese e l’apparato militare >> 13. La crisi di liquidità in Francia rendeva però impossibile
collocare, come era avvenuto in passato, i titoli di Stato italiani e ottenere
nuovi crediti. Ad aggravare la situazione vi era poi << il grave stato di tensione nelle relazioni diplomatiche >>
14 tra Roma e Parigi di fronte al quale anche la massoneria era
impotente. Tra il Grande Oriente di Francia e quello d’Italia esisteva ora una
situazione di aperta competizione. Per Crispi ciò rappresentava << l’occasione per consumare un
ribaltamento dell’alleanza con la Francia anche sul piano delle relazioni
finanziarie. Era venuto il momento di costituire il secondo bastione di
sostegno della strategia crispina: anche questo sarà il compito di Adriano
Lemmi >> 15. Ecco quindi rientrare in scena il patriota
rivoluzionario iniziato a Londra da Mazzini, il banchiere cosmopolita già in
rapporti con le grandi centrali finanziarie internazionali e che probabilmente
era stato infiltrato – proprio da queste ultime – al vertice del Grande Oriente
d’Italia.
Scrive
Nassi che tutto lascia supporre che <<
l’operazione sia cominciata con la messa a punto di una radiografia della
situazione italiana, soprattutto perché a conoscere la verità dei numeri erano
gli uomini di governo, gli alti funzionari e gli esperti del sistema bancario
militanti dentro e fuori la Loggia coperta di propaganda massonica >> 16.
Da
ciò sarebbe emerso un quadro assai negativo, poiché << la lira perdeva colpi nei confronti del franco e del marco;
l’inflazione era salita dell’1,4 per cento; la bilancia commerciale, dopo i
crolli vistosi del primo periodo della guerra doganale con la Francia, accusava
perdite che si faceva fatica a riassorbire con le << partite invisibili
>> delle rimesse degli emigranti e dei capitali esteri; il valore dei
titoli di Stato sulle maggiori piazze finanziarie era sceso fra il 4 e il 3 per
cento; l’offerta di obbligazioni, come la richiesta di anticipazioni, faceva
raramente il pieno, mentre diventava sempre più complicato rinegoziare i
prestiti dei primi anni Ottanta; e infine sui 488 milioni del disavanzo dello
Stato gravava il buco degli interessi del debito pubblico stimato per l’anno in
corso in 120 milioni di lire a semestre. A fronte di questo quadro, oltre al
declino di Parigi, consolidata piazza per gli affari italiani, c’era la novità
di una forte tendenza espansiva del sistema finanziario tedesco, quindi di
nuove condizioni di competitività sul mercato internazionale dei capitali in
cui, specie sul versante italiano, aveva sinora svolto un ruolo del tutto
marginale >> 17.
Essendosi
legato mani e piedi al sistema usuraio della finanza sionista, il Regno sabaudo
si trovava ora nella condizione di dover rovesciare tutta la sua politica
estera ed economica per evitare il default. Con un deficit annuo di 488
milioni, di cui 240 derivato dagli interessi sul debito pubblico, non
esistevano altre strade che quelle che il Gran Maestro Adriano Lemmi indicò al
venerabile Crispi: << malgrado
l’andamento degli indicatori economici più significativi la situazione internazionale
offriva ampi spazi di manovra per assicurare risorse alla modernizzazione e al
riarmo del paese. Bastava spostare l’interesse di Berlino dalla Russia zarista
al regno sabaudo >> 18.
Ecco
quindi entrare in scena l’asso nella manica di Adriano Lemmi, Otto Joel.
Proveniente da una famiglia israelita tedesca di Danzica, Joel si era
trasferito in Italia a quindici anni. Frequentava le Logge di Genova e Milano, << dove fece una brillante scalata nel
sistema bancario >> 19. Furono i maneggi di Margherita di
Savoia, alla quale era stato raccomandato dal venerabile Crispi, ad aprire a
Joel le porte del successo in Germania. La regina sollecitò l’intervento di un
cugino di Guglielmo I, che era stato un tempo un suo corteggiatore, e tanto
bastò a farlo ammettere alla stessa Loggia alla quale appartenevano il Kaiser e
il figlio di Bismark, Herbert, che era all’epoca Sottosegretario di Stato agli
Esteri con delega all’Italia. <<
Sicché su Lemmi e Joel veniva stesa la tegolatura con l’intervento personale
dell’imperatore sulla banca tedesca in dinamica proiezione all’estero e di
estrema fiducia perché curava gli interessi della corte >> 20.
Nassi
afferma che << il risultato
dell’operazione è una massiccia penetrazione del capitale tedesco nel sistema
italiano le cui dimensioni portarono rapidamente alla creazione di un consorzio
che, nei primi anni Novanta, genera la Banca commerciale e il Credito italiano
nei cui vertici sarà predominante la presenza massonica. Crispi finalmente ha i
mezzi per sviluppare la rete delle comunicazioni, l’agricoltura e per innestare
nel sistema-paese la modernità dei sistemi produttivi avanzati, riassorbendo
stagnazione, disoccupazione e un’ingente quota di debito pubblico, ma anche per
rafforzare e modernizzare l’esercito e la marina e per sostenere le imprese
africane >> 21.
Nella
ricostruzione di Nassi troviamo quindi una finanza francese contrapposta a una
finanza tedesca. Abbiamo visto però che la finanza francese era dominata dai
Rothschild di Parigi: chi era invece che tirava le fila della finanza tedesca? Nella
prima metà dell’Ottocento essa era controllata da Amschel Rothschild
(1773-1855), che fu a capo del ramo di Francoforte del casato. Tuttavia già
prima della fine del secolo si andavano affermando altre casate di banchieri,
gli ebrei ashkenazi Warburg e i Gunzburg.
Scrive
Pietro Ratto: << Nel 1895 Paul
Warburg, erede dell’intero patrimonio economico-finanziario della famiglia,
sposò Nina J. Loeb, figlia di Samon Loeb, fondatore della grande banca
americana Khun, Loeb & Co […] Nello stesso anni, il fratello Felix Warburg
sposò Frieda Schiff, figlia dell’influente agente dei Rothschild Jakob Schiff,
discendente dell’omonima famiglia di banchieri ebrei, che condivideva la casa
natia del capostipite dei Rothschild, Amschel Mayer, a Francoforte. Jakob
Schiff era anche il direttore della suddetta Khun, Loeb & Co. La famiglia
Warburg, insomma, risultava intrecciata con le principali dinastie della
finanza ebraica. Lo zio di Paul, Sigmund Warburg (1835-1889), aveva sposato nel
1863 Theophilie Rosenberg, discendente della grande famiglia di ebrei russi,
ricchissimi proprietari terrieri; la sorella di Theophilie, Anna, era invece
andata in sposa al grande banchiere e barone Horace Gunzburg (1883-1909), e i
figli di Theophilie e di Anna, rispettivamente Rosa e Alexander Moses, si erano
uniti in nozze tra loro, cementando così definitivamente l’unione tra i
Gunzburg e i Warburg >> 22.
Se
dunque Alphonse de Rothschild aveva negato prestiti a Bismark per finanziare la
guerra franco-prussiana, è però vero che altre famiglie ebraiche avevano
posizioni di assoluto rilievo nella finanza tedesca. I nuovi capitali affluiti
in Italia durante il governo Crispi appartenevano al mondo della finanza
internazionale sionista proprio come al tempo di Cavour, sebbene ufficialmente
non provenissero più da Parigi bensì Berlino. Una differenza risibile in un
contesto per sua natura cosmopolita come quello della finanza. Pure lui ebreo –
e anche massone – era l’uomo di fiducia delle famiglie dei banchieri israeliti
tedeschi: Otto Joel. Possiamo allora tentare di tirare le somme: attratti da
investimenti più redditizi, i Rothschild diminuirono la propria presenza sulla
piazza francese, dove pure consolidarono la propria egemonia, e vendettero –
nel senso più letterale del termine – l’Italia ad altri banchieri israeliti. Il
tutto col beneplacito di Sua Maestà britannica, interessata a mantenere uno
stato di frizione tra l’Italia e la Francia per salvaguardare la rotta che attraverso
il Mediterraneo e Suez conduce in India. Possiamo così ipotizzare che il Gran
Maestro Adriano Lemmi avesse avuto l’incarico di condurre in porto senza
scossoni questa transizione di natura finanziaria: ciò confermerebbe
l’importanza della nomina di un banchiere alla guida del Grande Oriente
d’Italia.
Le
conseguenze nel campo della politica internazionale, rappresentate nello stato
di frizione con la Francia, sarebbero il riflesso di queste speculazioni
finanziarie. In campo massonico la rottura tra il Grande Oriente d’Italia e
quello di Francia potrebbe essere stato incoraggiato dalla Grand Lodge of
England per sbarrare la strada all’imperialismo francese e garantirsi il
controllo della vita pubblica italiana attraverso << fratelli >>
ostili alla massoneria francese. Ciò potrebbe essere confermato, almeno
indirettamente, dall’episodio emblematico di un << Grande Oriente con tempio a Palermo indipendente da Roma: e
perciò immediatamente riconosciuto da Parigi, in odio a Lemmi e al crispismo,
ma bollato dalla Loggia-madre londinese per eccesso di ideologia profana
>> 23.
Un
altro, aspetto collegato a quello finanziario, non può non essere menzionato.
Il golpe silenzioso di Adriano Lemmi, per funzionare, necessitava di coperture
che abbracciassero l’intero arco politico. Infatti non vi erano solo il governo
da manovrare e la sua maggioranza parlamentare da blindare: bisognava tenere
d’occhio anche l’opposizione parlamentare, che se avesse svolto la sua
tradizionale funzione di controllo avrebbe potuto denunciare certe manovre
dinnanzi all’opinione pubblica. Da uomo pratico, il banchiere Lemmi indovinò
che esisteva un argomento capace di mettere tutti d’accordo: il denaro. Un
fiume di denaro si riversò dalle banche di emissione direttamente nelle tasche
di uomini politici e di faccendieri, tutti in odore di massoneria.
La
trattazione della faccenda necessita di una breve premessa. All’indomani
dell’unità d’Italia vi sono una decina di istituti di credito che stampano
moneta: una situazione ereditata dalla precedente stato di frazionamento
politico in cui si trovava la Penisola. Ognuna di queste banche, oltre a
svolgere le normali attività di sportello, stampava vari titoli di credito:
banconote, assegni circolari, cambiali al portatore. Alla sola Banca Nazionale
d’Italia – ex Banca Nazionale degli Stati Sardi – è accordato il privilegio di
stampare moneta in quantità illimitata ovvero senza obbligo di garantire la
copertura delle emissioni per mezzo di una adeguata riserva aurea. Le sue
banconote sono le sole ad essere accettate senza problemi in tutta la Penisola,
laddove i titoli di credito di altri istituti di emissione sono accettati con
diffidenza – a volte persino rifiutati! – al di fuori della regione dove sono
stati emessi. Dopo un primo riassetto del sistema bancario emergono altre tre
realtà – oltre alla già citata Banca Nazionale d’Italia – autorizzate a
stampare moneta, seppure in quantità limitata: il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia e
la Banca romana di Credito. Un quinto e un sesto istituto di emissione possono
essere individuate nella Banca Nazionale Toscana e nella Banca Toscana di
Credito per le Industrie e il Commercio d'Italia, che continuano a far
circolare titoli di credito già esistenti e rimborsabili in oro. In tale modo
si rafforzano i legami tra la Destra storica, i ceti imprenditoriali del Nord e
il sistema bancario pur tutelando le situazioni preesistenti di clientelismo
locale. A rendere ancora più caotica la situazione si aggiungeva la mancanza di
controlli, poiché mancava un’istituzione pubblica di vigilanza come poteva
essere una banca centrale. Perciò continuano a circolare titoli di credito o
banconote abusive – cioè mascherate da assegni circolari o buoni di cassa –
emessi da banche minori e persino da società finanziarie e imprese di
costruzione. Tali titoli vengono spesso preferiti alle banconote vere e
proprie.
Un
tentativo di riordino del sistema fu fatto da Cavour, che intendeva
centralizzare l’emissione della moneta nella Banca Nazionale d’Italia, ma il
suo progetto si arenò in parlamento. Infatti vi erano lobby
politico-affaristiche fortemente radicate nel tessuto locale da cui
provenivano, che erano contrarie a qualsiasi ingerenza del Governo. Minghetti
riuscì a far approvare una legge per la creazione di un Consorzio Obbligatorio
degli Istituti di Emissione, che però non ebbe efficacia dal momento che i
controlli erano una farsa. Mentre gli uomini politici e i banchieri tentavano
di mettere ordine in una situazione che minacciava di diventare esplosiva o si
battevano per salvaguardare piccoli interessi di bottega, un cospiratore del
livello di Adriano Lemmi pianificò un progetto eversivo di vasta portata. Si
trattava, detto in maniera sintetica, di creare un’emissione parallela di carta
moneta con la quale corrompere uomini politici e giornalisti. Il tutto,
chiaramente, doveva essere fatto nel massimo segreto e a tal fine Lemmi aveva
piazzato i “fratelli” alla guida delle banche interessate. Le conseguenze,
ovvero la svalutazione della Lira, avrebbe generato una spirale inflattiva che
avrebbe colpito particolarmente i lavoratori salariati e gli indigenti contro i
quali, come abbiamo già visto nel capitolo precedente, lo Stato non esitava a
mandare l’esercito.
Su
questo argomento scrive Giulia Pezzella:
<< Nel 1889,
principalmente a causa della crisi del settore edilizio, alcune banche si
trovarono sull’orlo del fallimento. La cosa accreditò le voci che circolavano
da tempo circa un’eccessiva emissione di carta moneta da parte delle banche
autorizzate. Il ministro dell’agricoltura Miceli promosse l’inchiesta
amministrativa per verificare l’operato delle banche autorizzate a stampare
moneta che fu affidata al senatore Giuseppe Alvisi (già deputato della
Sinistra) insieme al funzionario del tesoro Gustavo Biagini. Bisognava capire,
in particolare, se il quantitativo di denaro emesso fosse congruo ai parametri
stabiliti. I risultati confermarono i sospetti: la Banca romana aveva stampato
25 milioni di lire in più e aveva sanato l’ammanco di diversi milioni con una serie
di biglietti falsi (duplicava cartamoneta già stampata); inoltre fu messo in
evidenza il coinvolgimento diretto del suo governatore Bernardo Tanlongo. Dalle
indagini emerse anche che la Banca aveva utilizzato questo denaro non solo per
finanziare le speculazioni edilizie, ma anche politici e giornalisti.
<< Per evitare lo
scandalo durante i tre anni successivi Crispi, Giolitti e anche Di Rudinì
preferirono tenere segreti i risultati in nome degli interessi più alti della
patria. L’inchiesta, dunque, venne insabbiata per scongiurare le conseguenze
negative che avrebbe avuto tanto sul sistema creditizio che sul mondo politico
>> 24.
L’inchiesta
era nata da un’improvvida manovra di Francesco Crispi e del suo ministro
Giovanni Nicotera, che mirava ad allontanare dalla direzione del Banco di
Napoli il senatore Girolamo Giusso. Le accuse alla gestione di questo istituto,
secondo la relazione, erano confermate, ma le irregolarità riscontrate erano
comuni a tutte le banche d’emissione: il vero scandalo era rappresentato dalla Banca
romana. La faccenda si complicò per l’insistenza di un onesto funzionario,
Biagini, che senza cedere alle pressioni conferma il rapporto stilato anche di
fronte al ministro. Poiché l’opposizione era al corrente della situazione, la bomba
era pronta ad esplodere. Tutto il sistema ora poggiava sulle spalle del
governatore della ex banca pontificia, Tanlongo.
Secondo
la ricostruzione che ne fa Nassi, Bernardo Tanlongo era << un finanziere in forte odor di massoneria approdato al Senato
con l’appoggio di Margherita e di Crispi. Sin dai primi anni Ottanta Tanlongo
era la cerniera più essenziale di quel diffuso sistema di corruzione noto come
<< politica di scambio >> (danaro contro favori). Ne aveva dato a
tutti o in nero, truccando i bilanci, o sotto forma di prestiti da archiviare
come insoluti. Nel suo libro paga c’erano politici, amministratori pubblici,
funzionari, generali e diplomatici. Non mancavano neppure i nomi di Umberto e
di Crispi e di Giovanni Gioliti, astro nascente della politica italiana
>> 25. Quest’ultima affermazione è notevole, poiché il
primo ministro Crispi aveva affidato l’ispezione proprio a un deputato della
Sinistra vicino a Giolitti, Giacomo Giuseppe Alvisi, già Presidente della Corte
dei Conti. Tutto, dunque, lasciava intendere che il clima di omertà avrebbe
unito la Destra e la Sinistra, entrambe complici del sistema corruttivo
alimentato dalla Banca Romana. Solo l’insistenza di Biagini complicava i piani.
Tanlongo
era dunque un elemento della catena di potere del Gran Maestro Adriano Lemmi.
Ora si dà il caso che tutte le catene siano tanto forti quanto è forte l’anello
più debole. Tanlongo era appunto l’anello debole. Chiamato di fronte al
ministro a rispondere di accuse assai circostanziate, il senatore “in forte
odor di massoneria” cede e ammette tutti gli addebiti. La Banca romana ha
emesso 25 milioni di lire in più rispetto a quanto le era consentito, altri nove
milioni e mezzo erano stati stampati ufficialmente per ritirare dalla circolazione
le banconote usurate, che invece erano state riprodotte con gli stessi numeri
di serie e messi in circolazione come duplicati delle prime, ovviamente non
distrutte. La banca risulta inoltre creditrice per cospicue aperture di credito
e finanziamenti concessi al settore edilizio durante la grande speculazione
ottocentesca per il risanamento di Roma e la costruzione di nuovi quartieri.
Sapendo
di avere le spalle coperte, Tanlongo rassicura il ministro: la Banca Nazione
d’Italia ha concesso un primo prestito di dieci milioni di Lire per coprire gli
ammanchi, poi un secondo di tre milioni mentre altri sei milioni sarebbero
stati occultati attraverso un certo numero di conti correnti fittizi. Ma
Biagini non molla e, nel corso di una seconda ispezione, scopre anche le nuove
irregolarità e questa volta avvisa non solo il ministro ma anche Alvisi.
L’anziano senatore, ormai prossimo alla morte e per questo tormentato dai dubbi
di coscienza, predispone un dossier e dà disposizioni affinché diventi di
pubblico dominio dopo la sua morte.
Il
malaffare e le responsabilità personali di Crispi e Giolitti nell’insabbiare la
faccenda vengono denunciate in un intervento alla Camera del deputato di
Sinistra Colajanni, il 20 dicembre 1892. Il momento è stato attentamente
calcolato, perché di lì a 10 giorni si sarebbe dovuto votare un disegno che
avrebbe prorogato di altri sei anni l’emissione forzosa della moneta, e la sua
estensione a tutti gli istituti di credito. All’indomani nomi e cifre finiscono
in prima pagina su tutti i giornali. Si muove la magistratura, che alla fine di
gennaio arresta Tanlongo e gli altri dirigenti della Banca romana, Lazzaroni e
Torlonia. Viene arrestato anche il direttore del Banco di Napoli, Cuciniello,
che si era dato alla latitanza, girando in abiti talari, dopo aver lasciato un
ammanco di cassa di 2,4 milioni di lire. Si muove anche il Parlamento, che il
30 dicembre istituisce in tutta fretta una commissione d’inchiesta, mentre
l’emissione forzosa viene prorogata di soli 3 mesi. I disegni del Gran Maestro
Adriano Lemmi subiscono un colpo decisivo.
Trovandosi
al fresco, Tanlongo si rinfresca le idee e vuota il sacco coinvolgendo politici
di primo piano. Giolitti, capo del governo dal 15 maggio 1892, si dimette il 15
dicembre 1893 quando le sue responsabilità vengono discusse in Parlamento: << Giolitti fu accusato principalmente
di tre cose: di aver tenuti nascosti i risultati del lavoro di Alvisi
(all’epoca era ministro del tesoro), di aver proposto il nome di Tanlongo come
senatore e di aver ricevuto denaro dalle casse della Banca romana per
finanziare le sue campagne elettorali >> 26. Lasciata
temporaneamente la politica, Giolitti fugge all’estero per timore di essere
arrestato: svolto il suo compitino di utile idiota, può ora restituire la
poltrona al Venerabile Crispi, che il 15 dicembre forma il suo terzo governo
rimasto in carica fino al 14 giugno 1894. Seguirà un quarto governo Crispi che
naufragherà all’indomani della disfatta di Adua.
Scrive
la Pezzella:
<< I nomi legati a
quello strano e oscuro personaggio che era Tanlongo erano molti ed eccellenti:
lo scandalo della Banca romana aveva travolto la politica, almeno in parte e
allo stesso tempo rappresentava la crisi finanziaria che il paese stava
attraversando. Ma il processo del 1894 assolse tutti, anche Tanlongo (Sor
Berna’, come lo chiamavano in Banca), per insufficienza di prove: i giudici
accolsero la tesi che sosteneva la sottrazione, nel corso delle indagini, di
importanti documenti.
<< Le
ripercussioni, però, furono notevoli. Dal punto di vista politico la più
evidente fu la scomparsa – momentanea – di Giolitti dalla scena politica. Dal
punto di vista finanziario, la più importante fu sicuramente l’istituzione nel
1893 della Banca d’Italia – che sarebbe poi diventata l’unico istituto di
emissione dello Stato – a cui fu affidata la liquidazione della Banca romana
>> 27.
Anche
i disegni cospirativi del Gran Maestro Lemmi si avvicinavano alla fine: << Nel 1894, quando il suo nome
comparve fra quelli dei personaggi coinvolti nello scandalo della Banca romana,
per il L. iniziò un rapido declino, che coincise nei tempi con quello dell'amico
Crispi e che fu scandito da violente campagne di stampa contro di lui e contro
l'organizzazione liberomuratoria.
<< All'interno
della massoneria, dopo il 1896, gli restò unicamente la carica di sovrano gran
commendatore del rito scozzese, che conservò fino alla morte, avvenuta a
Firenze il 23 maggio 1906 >> 28.
Dopo
lo scandalo della Banca romana, la vergognosa disfatta di Adua (1 marzo 1896) ad
opera di Menelick segna la fine della parabola di Crispi: << Crispi non ha retto a questa stretta della storia e con lui
crolla anche il sistema di relazioni e di potere occulto della Gran maestranza
di Adriano Lemmi e della Loggia della << P2 >> di Licio Gelli.
Nelle Logge, di riflesso, si concludeva la fase storica dell’appiattimento
istituzionale sul crispismo; e si riaccendeva la polemica tra le anime storiche
della massoneria. L’ala democratica, portavoce di un malessere largamente
diffuso nella piccola e media borghesia, come nei ceti popolari politicamente
già organizzati, rivendicava per l’ordine il ruolo di guida del riformismo
italiano […] Nell’ala di maggioranza – che dalla strisciante guerriglia passava
bruscamente alla rottura diplomatica con il Grande Oriente di Parigi – a
prevalere continuava ad essere la concezione lemmiana della massoneria come <<
partito dello Stato >> e di conseguenza corpo neutrale nei conflitti
sociali anche quando assumeranno, come nel ’98, la dimensione della protesta
insurrezionale… >> 29.
Note
1. E. Nassi, La massoneria in Italia, Newton, pp. 43-44
2. Ibidem, p. 42
3. Cfr. l’articolo di F. Conti, Lemmi, Adriano. Dizionario biografico degli
italiani, Vol. 64 (2005) all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/adriano-lemmi_(Dizionario_Biografico)/ consultato in data 11/08/2015
4. Cfr. l’articolo di M. Celi, I “Muratori” che costruivano il potere
occulto all’URL http://cronologia.leonardo.it/mondo27h.htm consultato in data 11/08/2015
5. E. Nassi, op. cit. , p. 44
6. Ivi.
7. Ibidem, p. 45.
8. Ibidem, p. 46.
9. Ivi.
10. Ibidem, p. 45.
11. Ibidem, p. 49.
12. P. Ratto, I Rothschild e gli altri, Arianna editrice, pp. 28-29.
13. E. Nassi, op. cit. , p. 46.
14. Ibidem, p. 49.
15. Ivi.
16. Ibidem, p. 50
17. Ivi.
18. Ivi.
19. Ivi.
20. Ibidem, p. 52.
21. Ivi.
22. P. Ratto, op. cit. , p. 74.
23. E. Nassi, p. 53.
24. Cfr. l’articolo di G. Pezzella, Lo scandalo della Banca Romana in Enciclopedia Treccani, all’ URL http://www.treccani.it/scuola/lezioni/in_aula/storia/banche/pezzella.html
consultato in data 12/08/2015
25. E. Nassi, op. cit. , p. 52.
26. G. Pezzella, op. cit.
27. Ivi.
28. F. Conti, op. cit.
29. E. Nassi, op. cit. , pp. 52-53
L'ARTICOLO CHE AVETE LETTO PROVIENE DAL SAGGIO MUSSOLINI E GLI "ILLUMINATI" DI ENRICO MONTERMINI.
L'OPERA E' DEPOSITATA PRESSO LA SIAE ED E' TUTELATA DALLE NORME A DIFESA DEL DIRITTO D'AUTORE.