Mussolini e gli Illuminati
Cerca nel blog
mercoledì 25 ottobre 2017
martedì 3 ottobre 2017
lunedì 18 settembre 2017
lunedì 2 novembre 2015
Il golpe massonico.
Nel
1847 Mazzini incaricò un giovane livornese di organizzare a Costantinopoli un gruppo
di patrioti a lui fedele e di raccogliere fondi per i suoi piani cospirativi.
Questo giovane si chiamava Adriano Lemmi (1822-1906).
Negli
anni successivi troviamo Lemmi implicato in ogni genere di complotto ordito dal
Mazzini: nel 1849 organizza l’imbarco dei volontari per difendere la Repubblica
romana, nel 1853 è tra i promotori dei moti di Genova, nel 1857 è il
finanziatore della spedizione di Piscacane e nel 1860 è tra gli organizzatori
della spedizione dei Mille. Una simile carriera da cospiratore gli varrà la
definizione di << banchiere della
rivoluzione italiana >> coniato da Guerzoni. Divenuto amico di
Garibaldi, resta coinvolto nell’oscuro affare delle ferrovie meridionali a cui
si è accennato nel precedente capitolo.
Lemmi
godette della protezione di Mazzini, che rivestiva un ruolo di primo piano
all’interno del sistema occulto della Contro-Chiesa. E’ significativo che il
banchiere livornese ricevesse incarichi di altissimo livello in ambito
finanziario all’interno della cospirazione carbonara prima ancora di approdare
alla massoneria nel marzo 1877. Anche le modalità di adesione alla massoneria
erano eccezionali: vi entrò infatti come membro della Loggia di Propaganda, una
speciale Loggia del G.O.I. che raccoglieva i membri dell’establishment
politico, economico e culturale del Regno d’Italia. Pare addirittura che
l’ideatore di questa struttura occulta fosse lo stesso Lemmi: << Segretezza, lealtà e sinergismo rappresentavano
insomma un trinomio di difficile simbiosi. Per risolvere il teorema, dunque,
non restava che ricorrere a strumenti non istituzionali, come quello di coprire
un’intera Loggia, lasciando in esclusiva al Gran maestro la responsabilità
della << tegolatura >> protettiva e il potere dell’iniziazione
<< sul filo della spada >>. La soluzione era ardita, ma Lemmi seppe
ben presentarla: così, con il determinante appoggio di Crispi, nel marzo 1877
veniva creata a Roma la << Loggia di Propaganda Massonica >> ,
madre di quella del venerabile Licio Gelli, detta poi << P2 >> per
comodità di linguaggio. La massoneria aveva infine trovato una sede
istituzionale in cui trattare in segreto gli interessi profani attraverso
riunioni – o scambi di messaggi subito bruciati – tra singoli affiliati o
gruppi di specializzazione. Sino alla caduta di Crispi, questa Loggia ha
rappresentato il maggior centro di potere italiano >> 1.
La
carriera massonica di Lemmi è troppo rapida per non far credere che questa
militanza servisse da copertura per celare i suoi mandanti e i propositi di
loro. Infatti egli, ancora neofita, viene subito chiamato a far parte della
commissione finanziaria del G.O.I. e poco dopo (maggio 1879) viene eletto Gran
tesoriere. Non basta nemmeno l’amicizia stretta con l’eroe nazionale Giuseppe Garibaldi
e con l’astro nascente della politica Francesco Crispi, entrambi insigniti del
grado << 33 >> della massoneria, a spiegare una carriera così
sfolgorante: a quanto pare si guadagnò il favore di numerose Logge provvedendo
di tasca propria – o così almeno riuscì a far credere – al pagamento delle
quote associative arretrate. Come commentare l’episodio? Simonia in salsa
massonica? Probabilmente sì. Certo dietro il banchiere livornese vi erano
sponsor molto “convincenti”. Intendiamo dire, in altre parole, che Lemmi era un
uomo della finanza internazionale che Mazzini aveva messo a diretto contatto
con gli “Illuminati” e con la Contro-Chiesa. Dopo aver finanziato il
Risorgimento gli “Illuminati” – in testa a tutti: Rothschild, Hambro, Perier e
Oden – miravano ora a consolidare la propria influenza sull’Italia unitaria in
vista di nuovi affari, di cui parleremo a breve. Per fare questo essi
necessitavano di schiere di tecnocrati addestrati ovvero dei bassi iniziati di
cui scriveva, in quegli stessi anni, Saint-Yves d’Alveydre. Ecco quindi la
convenienza ad appaltare alla massoneria locale la gestione della cosa
pubblica, dell’economia e della cultura. Ecco quindi la necessità di mettere un
proprio uomo di fiducia alla guida dell’ordine. Poiché gli affari, piuttosto la
fede, cementavano l’istituzione massonica italiana, fu scelto un banchiere:
egli era l’uomo giusto per corrompere un’istituzione che era in vendita al
migliore offerente. Per queste ragioni Lemmi viene eletto Gran Maestro del
Grande Oriente d’Italia il 17 gennaio 1885. Codesta maestranza, durata
ininterrottamente fino al 1896, lascerà un’impronta indelebile nella storia
della massoneria.
Scrive
Nasi: << il banchiere Lemmi
passava, e non senza ragione, come un mago della finanza e dell’organizzazione.
Collegato con le maggiori centrali finanziarie d’Europa, aveva una rete di
relazioni che pochi in Italia potevano vantare. Era ascoltato a corte e nel
governo. Insomma si muoveva tra affari e politica come una sorta di eminenza
grigia: ed è proprio per questo motivo che nel 1885 le Logge gli affidarono la
riorganizzazione del Grande Oriente e il risanamento delle finanze >>
2.
Di
fronte alla profonda crisi del G.O.I. , dimostratosi incapace di mediare tra le
due anime storiche della comunione – quella democratico-rivoluzionaria e quella
liberale-conservatrice – Lemmi fa una netta scelta di campo e in appena due
anni cambia volto alla massoneria: espelle i leader della Sinistra
rivoluzionaria e sposta in alto la base sociale dell’organizzazione con
l’iniziazione dei quadri medio-alti dei ceti emergenti. In questo modo la
massoneria si afferma come occulto <<
partito della borghesia >> secondo la celebre definizione di Gramsci.
Secondo
Fulvio Conti << Egli concepì infatti
la massoneria come uno strumento per orientare l'opinione pubblica,
condizionare il ceto politico e mobilitare la società civile al fine di
rafforzare lo Stato nato dal Risorgimento, emarginare la Chiesa e le
organizzazioni cattoliche, realizzare una serie di riforme sociali e politiche
di schietta matrice laica e progressista >> 3.
Mario
Celi afferma che Lemmi << fu il
primo a intuire l’importanza di avere a propria disposizione una loggia coperta
per manovrare la finanza pubblica stando dietro il palcoscenico. Il suo
programma massonico era semplice: via dalle logge i poveracci e i pensatori, l’obbiettivo
doveva essere la conquista del potere: “Chi è al governo degli Stati o è nostro
fratello o deve perdere il posto”. La stessa filosofia che un secolo più tardi
avrebbe ispirato il << fratello >> Licio Gelli >> 4.
Durante
la maestranza di Lemmi erano addirittura trecento i parlamentari iscritti alle
Logge. Il loro apporto fu decisivo per il golpe silenzioso attuato dall’ordine.
Come scrive Nassi, << non è quindi
casuale che, nel 1889, nel primo governo Crispi si contassero, oltre al
premier, almeno cinque ministri e nove sottosegretari affiliati alla
massoneria. Lo sbarco nel governo, che Adriano Lemmi si era posto come
obbiettivo dalla sua iniziazione, è un successo che forse non ha precedenti
nella storia d’Europa. Tuttavia, come corpo mistico di una fratellanza universale,
la massoneria italiana tocca il suo livello più basso >> 5.
Nasce così il primo e unico governo dichiaratamente massonico della Storia
d’Italia, guidato per di più da un venerabile << 33 >>, e posto
completamente agli ordini del Grande Oriente d’Italia. Dietro il quale è appena
possibile individuare i contorni di un altro potere occulto, la grande finanza
cosmopolita.
Il
golpe massonico era quindi cosa fatta: <<
l’eccessivo appiattimento di Adriano Lemmi (e della Loggia coperta) sulla
politica e sulla leadership di Crispi ha infatti come risultato un progressivo
declassamento delle ambizioni di supremazia morale e un massiccio processo di
secolarizzazione dei templi. In conclusione non decade solo l’antica carica di
spiritualità, ma il Grande Oriente, di riflesso, come si è detto, non sarà più
neppure, come al tempo del Risorgimento, un dinamico << centro di
mediazione d’interessi e di contrasti >>. Diventa piuttosto un braccio
operativo >> 6.
Il
modello di Crispi era il cancelliere tedesco Otto von Bismark. Proprio come lui
lo “statista” siciliano intendeva governare il Paese con piglio autoritario e
si poneva ambiziosi obiettivi, <<
sfidando, all’occorrenza, pure il potere del papa e delle più agguerrite frange
del radicalismo libertario >> 7. Anziché partire dai tanti
problemi della popolazione, Crispi vedeva nella gente comune uno strumento per cogliere
un fine più alto: un ideale astratto che non poteva non essere suggerito dai
poteri forti sulla base di un calcolo di interesse. Il suo progetto era
trasformare il Regno d’Italia in una grande potenza sullo scacchiere
internazionale, proprio come Bismark aveva fatto con la Prussia.
Il
primo punto del suo programma consisteva in un’operazione culturale ossia
nell’eludere il problema dell’identità nazionale tra i popoli della Penisola
che il progetto mondialista aveva unito a forza. Per “fare gli italiani” Crispi
intendeva nazionalizzare le masse. Occorreva ottenere << il consenso delle classi medie >> attraverso
<< un inedito culto della
patria-Stato e quindi con una nuova interpretazione dei valori e dei simboli
più aggreganti del Risorgimento. In sintesi, si trattava di riscrivere
settant’anni di storia per caratterizzare in chiave nazionalpopolare tutte le
celebrazioni del processo unitario >> 8. L’ubriacatura
nazionalista serviva ad eludere anche un altro problema: quello dell’educazione
civica del cittadino, della sua preparazione ad agire come membro di una
comunità di individui liberi, uguali e responsabili: la soluzione proposta era
quindi un rigido conformismo agli slogan, ai simboli, alle immagini e ai
rituali politici inventati di sana pianta dai discepoli di Lemmi. Un altro
aspetto era il processo di revisione storica che vedeva nel “garibaldino”
Crispi l’ultimo sopravvissuto di una generazione di eroi, il momento di sintesi
delle diverse anime del Risorgimento. Premesso che la Storia la scrivono i
vincitori, l’aspetto anomalo dell’intera vicenda risiedeva nel fatto che << di questo processo di revisione
<< era a un tempo protagonista, narratore e giudice >> un leader
politico, un moderno Cesare (quale appunto Crispi voleva essere) >> 9.
Probabilmente Mussolini sarà il più attento discepolo di Crispi.
Ricapitolando:
il Grande Oriente d’Italia sotto la maestranza di Lemmi sacrificava i propri
valori spirituali – ovvero il contatto con le sue radici magico-alchemiche –
alla tentazione del potere; ma contemporaneamente proiettava verso la società
civile i riti e i simboli di una religione civile, inventata a tavolino e contrapposta
alla religione cattolica e all’ideologia marxista. I templi massonici
diventavano così il sancta sanctorum del potere, inaccessibile ai profani, e da
essi uscivano i sacerdoti che predicavano la nuova dottrina del nazionalismo.
Orchestrando
il consenso con questi metodi, i tecnocrati formati dal Grande Oriente d’Italia
tentavano di mobilitare le masse per <<
trasferire al popolo il potere d’iniziativa nella costruzione e nella gestione
dello Stato prima ancora che il ciclo unitario si concludesse con la
liberazione di Trento e Trieste; ben consapevole, ad ogni modo, che ciò andava
fatto a scapito del primato di casa Savoia e a tutto vantaggio delle punte più
avanzate della borghesia e dell’ala moderata del movimento operaio. In definitiva,
la sua (di Crispi) era la proposta complessiva di un nuovo contratto sociale il
cui fine era la trasformazione del paese, condizione chiave per ascendere al
rango di grande potenza, forte e temuta nello scacchiere internazionale e
infine rivale di rispetto nella corsa alle colonie, in Africa anzitutto
>> 10.
Malgrado
la formale alleanza con Berlino e Vienna, vi era il ricordo delle recenti
guerre d’indipendenza e il problema delle “terre irredente” a turbare le
relazioni con l’Impero Austro Ungarico. L’alleanza con l’antico nemico veniva
quindi vissuta con imbarazzo dall’intera classe politica italiana, re Umberto
compreso. Era venuta a mancare anche la tradizionale alleanza con la Francia,
dal momento che le mire di Crispi si focalizzavano sulla Tunisia e il Corno
d’Africa ambite anche dai francesi. Il venerabile “33”, allora a capo del
governo, scatenò una guerra doganale nei confronti della Francia forse per
motivi propagandistici: ne pagò dazio l’intero Paese, che subì un immediato
crollo delle esportazioni. La sua politica estera, ambiziosa e bellicosa,
veniva portata avanti con estrema rudezza fino al limite della degenerazione
dei rapporti diplomatici. Ma a chi giovava tutto ciò? Non certo all’Italia,
alla quale avrebbe fatto più comodo una politica più concentrata verso la
crescita economica e i problemi sociali.
Nella
seconda metà dell’Ottocento si stava verificando << una fase oggettiva di declino della piazza francese dove
tradizionalmente lo Stato italiano collocava i suoi titoli e negoziava prestiti
e investimenti >> 11. Cosa era accaduto? Il 15 novembre
1868 lo spregiudicato James de Rothschild, il finanziatore di Napoleone III e
Cavour, era morto. Alla guida del ramo francese gli succedeva il figlio
Alphonse. Due anni dopo la guerra franco-prussiana si concluse con il trionfo della
Germania appena unificata da Bismark. Nel giro di poche settimane Napoleone III
si era arreso con tutta l’armata a Sedan. Alphonse de Rothschild avrebbe potuto
trattare con Bismark per la liberazione di Napoleone III, ma decise
diversamente: probabilmente l’imperatore aveva fatto il suo tempo e poteva ora
uscire di scena in previsione di nuove e ancor più vantaggiose speculazioni
usuraie. Poiché i tedeschi si erano occupati del lavoro sporco, la Terza
Repubblica poteva sorgere sulle ceneri dell’impero come una creatura del Barone
Rothschild. Nella principesca residenza del banchiere alle Ferriers
alloggiavano allora Guglielmo I, Bismark e i vertici dello Stato Maggiore
tedesco. Accettarono di lasciare Parigi solo dopo il pagamento di duecento
milioni di franchi, che Rotschild pagò per rientrare in possesso di casa sua, ma
sotto forma di prestito al governo francese, che quei quattrini non li aveva.
Dalla sua nuova residenza di Versailles Bismark chiese ora 31 miliardi franchi
a titolo di risarcimento per le spese di guerra: << Alphonse trattò di persona e alla fine si accordò per la
cifra, comunque esorbitante, di cinque miliardi. Quasi venticinque miliardi di
euro attuali! […] anche se Alphonse riuscì ad assicurarsi buona parte di quel
prestito (considerato il più grande affare finanziario del XIX secolo), le
nuove banche per azioni, nate nel frattempo per contrastare il potere dei
Rothschild, si riunirono in una coalizione per strappare la quota più alta
possibile della somma da prestare. Così, secondo Bouvier, cominciò in quel 1873
il declino relativo dei Rotschild francesi. Che continuarono a crescere, ma più
lentamente di prima [...] Quando tutto ebbe termine, le finanze della neonata
Terza Repubblica francese erano ormai definitivamente nelle mani del Barone de
Rothschild >> 12.
Gli
affari dei Rothschild in Inghilterra erano di vecchia data: nel 1840 la “N.M.
Rothschild & Sons” era già la principale fornitrice della Banca
d’Inghilterra e dal 1852 otteneva la gestione della zecca reale. Nel 1857
Alphonse de Rothschild aveva rafforzato i legami tra il ramo francese e quello
inglese della famiglia sposando la figlia di un cugino inglese di suo padre. I
risultati non mancarono di farsi sentire. Infatti in tutta Europa furono
racimolate colossali ricchezze, che attraverso la City di Londra venivano dirottate
in ogni angolo del mondo ove la Gran Bretagna era disposta a fare da cane da
guardia agli investimenti. Del resto a Londra il potere politico era nelle mani
di Benjamin Disraeli, un avvocato israelita di fede cristiana, mentre quello
finanziario nelle mani di Lionel Rothschild, che era a capo del ramo inglese
del casato ed era compagno di partito di Disraeli. Fu Lionel Rothschild nel
1875 a dare assistenza finanziaria al Governo inglese, presieduto proprio da
Disraeli, nell’acquisizione delle azioni del canale di Suez, che era stato
inaugurato nel 1869. A tale atto fece seguito l’occupazione militare inglese
dell’Egitto nel 1882. Con ciò gli investitori francesi, che erano stati i
principali promotori della Compagnie universelle du canal maritime de Suez,
divennero junior partner della finanza inglese e i Rothschild guadagnarono
l’eterna benevolenza di Sua Maestà britannica.
Da
quel momento il canale di Suez diveniva essenziale nella strategia britannica
di controllo della rotta per le Indie. Di conseguenza l’establishment politico
ed economico inglese aveva tutto l’interesse a contrapporre le ambizioni del neonato
Regno d’Italia alla Francia, l’unica potenza europea che potesse competere con
l’Inghilterra nella conquista di colonie e rotte commerciali.
Alla
City di Londra i Rothschild entrarono in società con quel Cecil Rhodes, che fu
il primo governatore della colonia del Capo e uno dei promotori della
segretissima Fabian Society. Da questo incontro nacque la De Beers, che col
supporto del Regno Unito si impadronì nella maniera più brutale dei giacimenti di
diamanti del Sud Africa. Per effetto della spietata conquista delle repubbliche
boere del Traansval e dell’Orange, la City di Londra alla fine dell’Ottocento
si risollevò dal precedente declino. La De Beers mantiene tuttora il controllo
del mercato internazionale dei diamanti.
I
Rothschild investirono anche in molte miniere di rame, piombo, ferro e zinco.
Ottennero inoltre il monopolio del mercurio in Spagna. Avevano messo le mani
sui colossali giacimenti di nichel della Nuova Caledonia. Avevano fondato la
Caspian and Black See Petroleum (Bnito), che poi diventerà la Royal Dutch Shell
e sarà una delle famose “sette sorelle” monopoliste del mercato mondiale del
petrolio: la Bnito controllava allora i pozzi di petrolio di Baku come abbiamo
già visto. Così i Rothschild tendevano ad assumere il controllo del mercato
mondiale delle materie prime all’interno del contesto della seconda rivoluzione
industriale.
Alla
luce di queste affermazioni non stupisce il declino della piazza francese, poiché
i capitali erano investiti con maggior profitto altrove. Tutto ciò accadeva mentre
la strategia di Crispi rendeva necessario <<
un imponente drenaggio di capitali, in Italia e all’estero, per realizzare un
organico e ambizioso programma di investimenti teso a modernizzare il
sistema-paese e l’apparato militare >> 13. La crisi di liquidità in Francia rendeva però impossibile
collocare, come era avvenuto in passato, i titoli di Stato italiani e ottenere
nuovi crediti. Ad aggravare la situazione vi era poi << il grave stato di tensione nelle relazioni diplomatiche >>
14 tra Roma e Parigi di fronte al quale anche la massoneria era
impotente. Tra il Grande Oriente di Francia e quello d’Italia esisteva ora una
situazione di aperta competizione. Per Crispi ciò rappresentava << l’occasione per consumare un
ribaltamento dell’alleanza con la Francia anche sul piano delle relazioni
finanziarie. Era venuto il momento di costituire il secondo bastione di
sostegno della strategia crispina: anche questo sarà il compito di Adriano
Lemmi >> 15. Ecco quindi rientrare in scena il patriota
rivoluzionario iniziato a Londra da Mazzini, il banchiere cosmopolita già in
rapporti con le grandi centrali finanziarie internazionali e che probabilmente
era stato infiltrato – proprio da queste ultime – al vertice del Grande Oriente
d’Italia.
Scrive
Nassi che tutto lascia supporre che <<
l’operazione sia cominciata con la messa a punto di una radiografia della
situazione italiana, soprattutto perché a conoscere la verità dei numeri erano
gli uomini di governo, gli alti funzionari e gli esperti del sistema bancario
militanti dentro e fuori la Loggia coperta di propaganda massonica >> 16.
Da
ciò sarebbe emerso un quadro assai negativo, poiché << la lira perdeva colpi nei confronti del franco e del marco;
l’inflazione era salita dell’1,4 per cento; la bilancia commerciale, dopo i
crolli vistosi del primo periodo della guerra doganale con la Francia, accusava
perdite che si faceva fatica a riassorbire con le << partite invisibili
>> delle rimesse degli emigranti e dei capitali esteri; il valore dei
titoli di Stato sulle maggiori piazze finanziarie era sceso fra il 4 e il 3 per
cento; l’offerta di obbligazioni, come la richiesta di anticipazioni, faceva
raramente il pieno, mentre diventava sempre più complicato rinegoziare i
prestiti dei primi anni Ottanta; e infine sui 488 milioni del disavanzo dello
Stato gravava il buco degli interessi del debito pubblico stimato per l’anno in
corso in 120 milioni di lire a semestre. A fronte di questo quadro, oltre al
declino di Parigi, consolidata piazza per gli affari italiani, c’era la novità
di una forte tendenza espansiva del sistema finanziario tedesco, quindi di
nuove condizioni di competitività sul mercato internazionale dei capitali in
cui, specie sul versante italiano, aveva sinora svolto un ruolo del tutto
marginale >> 17.
Essendosi
legato mani e piedi al sistema usuraio della finanza sionista, il Regno sabaudo
si trovava ora nella condizione di dover rovesciare tutta la sua politica
estera ed economica per evitare il default. Con un deficit annuo di 488
milioni, di cui 240 derivato dagli interessi sul debito pubblico, non
esistevano altre strade che quelle che il Gran Maestro Adriano Lemmi indicò al
venerabile Crispi: << malgrado
l’andamento degli indicatori economici più significativi la situazione internazionale
offriva ampi spazi di manovra per assicurare risorse alla modernizzazione e al
riarmo del paese. Bastava spostare l’interesse di Berlino dalla Russia zarista
al regno sabaudo >> 18.
Ecco
quindi entrare in scena l’asso nella manica di Adriano Lemmi, Otto Joel.
Proveniente da una famiglia israelita tedesca di Danzica, Joel si era
trasferito in Italia a quindici anni. Frequentava le Logge di Genova e Milano, << dove fece una brillante scalata nel
sistema bancario >> 19. Furono i maneggi di Margherita di
Savoia, alla quale era stato raccomandato dal venerabile Crispi, ad aprire a
Joel le porte del successo in Germania. La regina sollecitò l’intervento di un
cugino di Guglielmo I, che era stato un tempo un suo corteggiatore, e tanto
bastò a farlo ammettere alla stessa Loggia alla quale appartenevano il Kaiser e
il figlio di Bismark, Herbert, che era all’epoca Sottosegretario di Stato agli
Esteri con delega all’Italia. <<
Sicché su Lemmi e Joel veniva stesa la tegolatura con l’intervento personale
dell’imperatore sulla banca tedesca in dinamica proiezione all’estero e di
estrema fiducia perché curava gli interessi della corte >> 20.
Nassi
afferma che << il risultato
dell’operazione è una massiccia penetrazione del capitale tedesco nel sistema
italiano le cui dimensioni portarono rapidamente alla creazione di un consorzio
che, nei primi anni Novanta, genera la Banca commerciale e il Credito italiano
nei cui vertici sarà predominante la presenza massonica. Crispi finalmente ha i
mezzi per sviluppare la rete delle comunicazioni, l’agricoltura e per innestare
nel sistema-paese la modernità dei sistemi produttivi avanzati, riassorbendo
stagnazione, disoccupazione e un’ingente quota di debito pubblico, ma anche per
rafforzare e modernizzare l’esercito e la marina e per sostenere le imprese
africane >> 21.
Nella
ricostruzione di Nassi troviamo quindi una finanza francese contrapposta a una
finanza tedesca. Abbiamo visto però che la finanza francese era dominata dai
Rothschild di Parigi: chi era invece che tirava le fila della finanza tedesca? Nella
prima metà dell’Ottocento essa era controllata da Amschel Rothschild
(1773-1855), che fu a capo del ramo di Francoforte del casato. Tuttavia già
prima della fine del secolo si andavano affermando altre casate di banchieri,
gli ebrei ashkenazi Warburg e i Gunzburg.
Scrive
Pietro Ratto: << Nel 1895 Paul
Warburg, erede dell’intero patrimonio economico-finanziario della famiglia,
sposò Nina J. Loeb, figlia di Samon Loeb, fondatore della grande banca
americana Khun, Loeb & Co […] Nello stesso anni, il fratello Felix Warburg
sposò Frieda Schiff, figlia dell’influente agente dei Rothschild Jakob Schiff,
discendente dell’omonima famiglia di banchieri ebrei, che condivideva la casa
natia del capostipite dei Rothschild, Amschel Mayer, a Francoforte. Jakob
Schiff era anche il direttore della suddetta Khun, Loeb & Co. La famiglia
Warburg, insomma, risultava intrecciata con le principali dinastie della
finanza ebraica. Lo zio di Paul, Sigmund Warburg (1835-1889), aveva sposato nel
1863 Theophilie Rosenberg, discendente della grande famiglia di ebrei russi,
ricchissimi proprietari terrieri; la sorella di Theophilie, Anna, era invece
andata in sposa al grande banchiere e barone Horace Gunzburg (1883-1909), e i
figli di Theophilie e di Anna, rispettivamente Rosa e Alexander Moses, si erano
uniti in nozze tra loro, cementando così definitivamente l’unione tra i
Gunzburg e i Warburg >> 22.
Se
dunque Alphonse de Rothschild aveva negato prestiti a Bismark per finanziare la
guerra franco-prussiana, è però vero che altre famiglie ebraiche avevano
posizioni di assoluto rilievo nella finanza tedesca. I nuovi capitali affluiti
in Italia durante il governo Crispi appartenevano al mondo della finanza
internazionale sionista proprio come al tempo di Cavour, sebbene ufficialmente
non provenissero più da Parigi bensì Berlino. Una differenza risibile in un
contesto per sua natura cosmopolita come quello della finanza. Pure lui ebreo –
e anche massone – era l’uomo di fiducia delle famiglie dei banchieri israeliti
tedeschi: Otto Joel. Possiamo allora tentare di tirare le somme: attratti da
investimenti più redditizi, i Rothschild diminuirono la propria presenza sulla
piazza francese, dove pure consolidarono la propria egemonia, e vendettero –
nel senso più letterale del termine – l’Italia ad altri banchieri israeliti. Il
tutto col beneplacito di Sua Maestà britannica, interessata a mantenere uno
stato di frizione tra l’Italia e la Francia per salvaguardare la rotta che attraverso
il Mediterraneo e Suez conduce in India. Possiamo così ipotizzare che il Gran
Maestro Adriano Lemmi avesse avuto l’incarico di condurre in porto senza
scossoni questa transizione di natura finanziaria: ciò confermerebbe
l’importanza della nomina di un banchiere alla guida del Grande Oriente
d’Italia.
Le
conseguenze nel campo della politica internazionale, rappresentate nello stato
di frizione con la Francia, sarebbero il riflesso di queste speculazioni
finanziarie. In campo massonico la rottura tra il Grande Oriente d’Italia e
quello di Francia potrebbe essere stato incoraggiato dalla Grand Lodge of
England per sbarrare la strada all’imperialismo francese e garantirsi il
controllo della vita pubblica italiana attraverso << fratelli >>
ostili alla massoneria francese. Ciò potrebbe essere confermato, almeno
indirettamente, dall’episodio emblematico di un << Grande Oriente con tempio a Palermo indipendente da Roma: e
perciò immediatamente riconosciuto da Parigi, in odio a Lemmi e al crispismo,
ma bollato dalla Loggia-madre londinese per eccesso di ideologia profana
>> 23.
Un
altro, aspetto collegato a quello finanziario, non può non essere menzionato.
Il golpe silenzioso di Adriano Lemmi, per funzionare, necessitava di coperture
che abbracciassero l’intero arco politico. Infatti non vi erano solo il governo
da manovrare e la sua maggioranza parlamentare da blindare: bisognava tenere
d’occhio anche l’opposizione parlamentare, che se avesse svolto la sua
tradizionale funzione di controllo avrebbe potuto denunciare certe manovre
dinnanzi all’opinione pubblica. Da uomo pratico, il banchiere Lemmi indovinò
che esisteva un argomento capace di mettere tutti d’accordo: il denaro. Un
fiume di denaro si riversò dalle banche di emissione direttamente nelle tasche
di uomini politici e di faccendieri, tutti in odore di massoneria.
La
trattazione della faccenda necessita di una breve premessa. All’indomani
dell’unità d’Italia vi sono una decina di istituti di credito che stampano
moneta: una situazione ereditata dalla precedente stato di frazionamento
politico in cui si trovava la Penisola. Ognuna di queste banche, oltre a
svolgere le normali attività di sportello, stampava vari titoli di credito:
banconote, assegni circolari, cambiali al portatore. Alla sola Banca Nazionale
d’Italia – ex Banca Nazionale degli Stati Sardi – è accordato il privilegio di
stampare moneta in quantità illimitata ovvero senza obbligo di garantire la
copertura delle emissioni per mezzo di una adeguata riserva aurea. Le sue
banconote sono le sole ad essere accettate senza problemi in tutta la Penisola,
laddove i titoli di credito di altri istituti di emissione sono accettati con
diffidenza – a volte persino rifiutati! – al di fuori della regione dove sono
stati emessi. Dopo un primo riassetto del sistema bancario emergono altre tre
realtà – oltre alla già citata Banca Nazionale d’Italia – autorizzate a
stampare moneta, seppure in quantità limitata: il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia e
la Banca romana di Credito. Un quinto e un sesto istituto di emissione possono
essere individuate nella Banca Nazionale Toscana e nella Banca Toscana di
Credito per le Industrie e il Commercio d'Italia, che continuano a far
circolare titoli di credito già esistenti e rimborsabili in oro. In tale modo
si rafforzano i legami tra la Destra storica, i ceti imprenditoriali del Nord e
il sistema bancario pur tutelando le situazioni preesistenti di clientelismo
locale. A rendere ancora più caotica la situazione si aggiungeva la mancanza di
controlli, poiché mancava un’istituzione pubblica di vigilanza come poteva
essere una banca centrale. Perciò continuano a circolare titoli di credito o
banconote abusive – cioè mascherate da assegni circolari o buoni di cassa –
emessi da banche minori e persino da società finanziarie e imprese di
costruzione. Tali titoli vengono spesso preferiti alle banconote vere e
proprie.
Un
tentativo di riordino del sistema fu fatto da Cavour, che intendeva
centralizzare l’emissione della moneta nella Banca Nazionale d’Italia, ma il
suo progetto si arenò in parlamento. Infatti vi erano lobby
politico-affaristiche fortemente radicate nel tessuto locale da cui
provenivano, che erano contrarie a qualsiasi ingerenza del Governo. Minghetti
riuscì a far approvare una legge per la creazione di un Consorzio Obbligatorio
degli Istituti di Emissione, che però non ebbe efficacia dal momento che i
controlli erano una farsa. Mentre gli uomini politici e i banchieri tentavano
di mettere ordine in una situazione che minacciava di diventare esplosiva o si
battevano per salvaguardare piccoli interessi di bottega, un cospiratore del
livello di Adriano Lemmi pianificò un progetto eversivo di vasta portata. Si
trattava, detto in maniera sintetica, di creare un’emissione parallela di carta
moneta con la quale corrompere uomini politici e giornalisti. Il tutto,
chiaramente, doveva essere fatto nel massimo segreto e a tal fine Lemmi aveva
piazzato i “fratelli” alla guida delle banche interessate. Le conseguenze,
ovvero la svalutazione della Lira, avrebbe generato una spirale inflattiva che
avrebbe colpito particolarmente i lavoratori salariati e gli indigenti contro i
quali, come abbiamo già visto nel capitolo precedente, lo Stato non esitava a
mandare l’esercito.
Su
questo argomento scrive Giulia Pezzella:
<< Nel 1889,
principalmente a causa della crisi del settore edilizio, alcune banche si
trovarono sull’orlo del fallimento. La cosa accreditò le voci che circolavano
da tempo circa un’eccessiva emissione di carta moneta da parte delle banche
autorizzate. Il ministro dell’agricoltura Miceli promosse l’inchiesta
amministrativa per verificare l’operato delle banche autorizzate a stampare
moneta che fu affidata al senatore Giuseppe Alvisi (già deputato della
Sinistra) insieme al funzionario del tesoro Gustavo Biagini. Bisognava capire,
in particolare, se il quantitativo di denaro emesso fosse congruo ai parametri
stabiliti. I risultati confermarono i sospetti: la Banca romana aveva stampato
25 milioni di lire in più e aveva sanato l’ammanco di diversi milioni con una serie
di biglietti falsi (duplicava cartamoneta già stampata); inoltre fu messo in
evidenza il coinvolgimento diretto del suo governatore Bernardo Tanlongo. Dalle
indagini emerse anche che la Banca aveva utilizzato questo denaro non solo per
finanziare le speculazioni edilizie, ma anche politici e giornalisti.
<< Per evitare lo
scandalo durante i tre anni successivi Crispi, Giolitti e anche Di Rudinì
preferirono tenere segreti i risultati in nome degli interessi più alti della
patria. L’inchiesta, dunque, venne insabbiata per scongiurare le conseguenze
negative che avrebbe avuto tanto sul sistema creditizio che sul mondo politico
>> 24.
L’inchiesta
era nata da un’improvvida manovra di Francesco Crispi e del suo ministro
Giovanni Nicotera, che mirava ad allontanare dalla direzione del Banco di
Napoli il senatore Girolamo Giusso. Le accuse alla gestione di questo istituto,
secondo la relazione, erano confermate, ma le irregolarità riscontrate erano
comuni a tutte le banche d’emissione: il vero scandalo era rappresentato dalla Banca
romana. La faccenda si complicò per l’insistenza di un onesto funzionario,
Biagini, che senza cedere alle pressioni conferma il rapporto stilato anche di
fronte al ministro. Poiché l’opposizione era al corrente della situazione, la bomba
era pronta ad esplodere. Tutto il sistema ora poggiava sulle spalle del
governatore della ex banca pontificia, Tanlongo.
Secondo
la ricostruzione che ne fa Nassi, Bernardo Tanlongo era << un finanziere in forte odor di massoneria approdato al Senato
con l’appoggio di Margherita e di Crispi. Sin dai primi anni Ottanta Tanlongo
era la cerniera più essenziale di quel diffuso sistema di corruzione noto come
<< politica di scambio >> (danaro contro favori). Ne aveva dato a
tutti o in nero, truccando i bilanci, o sotto forma di prestiti da archiviare
come insoluti. Nel suo libro paga c’erano politici, amministratori pubblici,
funzionari, generali e diplomatici. Non mancavano neppure i nomi di Umberto e
di Crispi e di Giovanni Gioliti, astro nascente della politica italiana
>> 25. Quest’ultima affermazione è notevole, poiché il
primo ministro Crispi aveva affidato l’ispezione proprio a un deputato della
Sinistra vicino a Giolitti, Giacomo Giuseppe Alvisi, già Presidente della Corte
dei Conti. Tutto, dunque, lasciava intendere che il clima di omertà avrebbe
unito la Destra e la Sinistra, entrambe complici del sistema corruttivo
alimentato dalla Banca Romana. Solo l’insistenza di Biagini complicava i piani.
Tanlongo
era dunque un elemento della catena di potere del Gran Maestro Adriano Lemmi.
Ora si dà il caso che tutte le catene siano tanto forti quanto è forte l’anello
più debole. Tanlongo era appunto l’anello debole. Chiamato di fronte al
ministro a rispondere di accuse assai circostanziate, il senatore “in forte
odor di massoneria” cede e ammette tutti gli addebiti. La Banca romana ha
emesso 25 milioni di lire in più rispetto a quanto le era consentito, altri nove
milioni e mezzo erano stati stampati ufficialmente per ritirare dalla circolazione
le banconote usurate, che invece erano state riprodotte con gli stessi numeri
di serie e messi in circolazione come duplicati delle prime, ovviamente non
distrutte. La banca risulta inoltre creditrice per cospicue aperture di credito
e finanziamenti concessi al settore edilizio durante la grande speculazione
ottocentesca per il risanamento di Roma e la costruzione di nuovi quartieri.
Sapendo
di avere le spalle coperte, Tanlongo rassicura il ministro: la Banca Nazione
d’Italia ha concesso un primo prestito di dieci milioni di Lire per coprire gli
ammanchi, poi un secondo di tre milioni mentre altri sei milioni sarebbero
stati occultati attraverso un certo numero di conti correnti fittizi. Ma
Biagini non molla e, nel corso di una seconda ispezione, scopre anche le nuove
irregolarità e questa volta avvisa non solo il ministro ma anche Alvisi.
L’anziano senatore, ormai prossimo alla morte e per questo tormentato dai dubbi
di coscienza, predispone un dossier e dà disposizioni affinché diventi di
pubblico dominio dopo la sua morte.
Il
malaffare e le responsabilità personali di Crispi e Giolitti nell’insabbiare la
faccenda vengono denunciate in un intervento alla Camera del deputato di
Sinistra Colajanni, il 20 dicembre 1892. Il momento è stato attentamente
calcolato, perché di lì a 10 giorni si sarebbe dovuto votare un disegno che
avrebbe prorogato di altri sei anni l’emissione forzosa della moneta, e la sua
estensione a tutti gli istituti di credito. All’indomani nomi e cifre finiscono
in prima pagina su tutti i giornali. Si muove la magistratura, che alla fine di
gennaio arresta Tanlongo e gli altri dirigenti della Banca romana, Lazzaroni e
Torlonia. Viene arrestato anche il direttore del Banco di Napoli, Cuciniello,
che si era dato alla latitanza, girando in abiti talari, dopo aver lasciato un
ammanco di cassa di 2,4 milioni di lire. Si muove anche il Parlamento, che il
30 dicembre istituisce in tutta fretta una commissione d’inchiesta, mentre
l’emissione forzosa viene prorogata di soli 3 mesi. I disegni del Gran Maestro
Adriano Lemmi subiscono un colpo decisivo.
Trovandosi
al fresco, Tanlongo si rinfresca le idee e vuota il sacco coinvolgendo politici
di primo piano. Giolitti, capo del governo dal 15 maggio 1892, si dimette il 15
dicembre 1893 quando le sue responsabilità vengono discusse in Parlamento: << Giolitti fu accusato principalmente
di tre cose: di aver tenuti nascosti i risultati del lavoro di Alvisi
(all’epoca era ministro del tesoro), di aver proposto il nome di Tanlongo come
senatore e di aver ricevuto denaro dalle casse della Banca romana per
finanziare le sue campagne elettorali >> 26. Lasciata
temporaneamente la politica, Giolitti fugge all’estero per timore di essere
arrestato: svolto il suo compitino di utile idiota, può ora restituire la
poltrona al Venerabile Crispi, che il 15 dicembre forma il suo terzo governo
rimasto in carica fino al 14 giugno 1894. Seguirà un quarto governo Crispi che
naufragherà all’indomani della disfatta di Adua.
Scrive
la Pezzella:
<< I nomi legati a
quello strano e oscuro personaggio che era Tanlongo erano molti ed eccellenti:
lo scandalo della Banca romana aveva travolto la politica, almeno in parte e
allo stesso tempo rappresentava la crisi finanziaria che il paese stava
attraversando. Ma il processo del 1894 assolse tutti, anche Tanlongo (Sor
Berna’, come lo chiamavano in Banca), per insufficienza di prove: i giudici
accolsero la tesi che sosteneva la sottrazione, nel corso delle indagini, di
importanti documenti.
<< Le
ripercussioni, però, furono notevoli. Dal punto di vista politico la più
evidente fu la scomparsa – momentanea – di Giolitti dalla scena politica. Dal
punto di vista finanziario, la più importante fu sicuramente l’istituzione nel
1893 della Banca d’Italia – che sarebbe poi diventata l’unico istituto di
emissione dello Stato – a cui fu affidata la liquidazione della Banca romana
>> 27.
Anche
i disegni cospirativi del Gran Maestro Lemmi si avvicinavano alla fine: << Nel 1894, quando il suo nome
comparve fra quelli dei personaggi coinvolti nello scandalo della Banca romana,
per il L. iniziò un rapido declino, che coincise nei tempi con quello dell'amico
Crispi e che fu scandito da violente campagne di stampa contro di lui e contro
l'organizzazione liberomuratoria.
<< All'interno
della massoneria, dopo il 1896, gli restò unicamente la carica di sovrano gran
commendatore del rito scozzese, che conservò fino alla morte, avvenuta a
Firenze il 23 maggio 1906 >> 28.
Dopo
lo scandalo della Banca romana, la vergognosa disfatta di Adua (1 marzo 1896) ad
opera di Menelick segna la fine della parabola di Crispi: << Crispi non ha retto a questa stretta della storia e con lui
crolla anche il sistema di relazioni e di potere occulto della Gran maestranza
di Adriano Lemmi e della Loggia della << P2 >> di Licio Gelli.
Nelle Logge, di riflesso, si concludeva la fase storica dell’appiattimento
istituzionale sul crispismo; e si riaccendeva la polemica tra le anime storiche
della massoneria. L’ala democratica, portavoce di un malessere largamente
diffuso nella piccola e media borghesia, come nei ceti popolari politicamente
già organizzati, rivendicava per l’ordine il ruolo di guida del riformismo
italiano […] Nell’ala di maggioranza – che dalla strisciante guerriglia passava
bruscamente alla rottura diplomatica con il Grande Oriente di Parigi – a
prevalere continuava ad essere la concezione lemmiana della massoneria come <<
partito dello Stato >> e di conseguenza corpo neutrale nei conflitti
sociali anche quando assumeranno, come nel ’98, la dimensione della protesta
insurrezionale… >> 29.
Note
1. E. Nassi, La massoneria in Italia, Newton, pp. 43-44
2. Ibidem, p. 42
3. Cfr. l’articolo di F. Conti, Lemmi, Adriano. Dizionario biografico degli
italiani, Vol. 64 (2005) all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/adriano-lemmi_(Dizionario_Biografico)/ consultato in data 11/08/2015
4. Cfr. l’articolo di M. Celi, I “Muratori” che costruivano il potere
occulto all’URL http://cronologia.leonardo.it/mondo27h.htm consultato in data 11/08/2015
5. E. Nassi, op. cit. , p. 44
6. Ivi.
7. Ibidem, p. 45.
8. Ibidem, p. 46.
9. Ivi.
10. Ibidem, p. 45.
11. Ibidem, p. 49.
12. P. Ratto, I Rothschild e gli altri, Arianna editrice, pp. 28-29.
13. E. Nassi, op. cit. , p. 46.
14. Ibidem, p. 49.
15. Ivi.
16. Ibidem, p. 50
17. Ivi.
18. Ivi.
19. Ivi.
20. Ibidem, p. 52.
21. Ivi.
22. P. Ratto, op. cit. , p. 74.
23. E. Nassi, p. 53.
24. Cfr. l’articolo di G. Pezzella, Lo scandalo della Banca Romana in Enciclopedia Treccani, all’ URL http://www.treccani.it/scuola/lezioni/in_aula/storia/banche/pezzella.html
consultato in data 12/08/2015
25. E. Nassi, op. cit. , p. 52.
26. G. Pezzella, op. cit.
27. Ivi.
28. F. Conti, op. cit.
29. E. Nassi, op. cit. , pp. 52-53
L'ARTICOLO CHE AVETE LETTO PROVIENE DAL SAGGIO MUSSOLINI E GLI "ILLUMINATI" DI ENRICO MONTERMINI.
L'OPERA E' DEPOSITATA PRESSO LA SIAE ED E' TUTELATA DALLE NORME A DIFESA DEL DIRITTO D'AUTORE.
Ebrei e massoni, l’altra faccia
del Risorgimento.
Prima
di parlare di Mussolini e dell’Italia fascista, sarà opportuno liquidare un
certo numero di luoghi di comuni sul Risorgimento e l’Italia liberale. Premesso
che non è questa la sede per analizzare in modo approfondito un tema tanto
vasto, indicheremo tre punti fondamentali che intendiamo esplorare: il ruolo di
esecutore che gli “Illuminati” hanno assegnato a Cavour e al Venerabile Maestro
Garibaldi; la nascita della massoneria in Italia; la figura, tuttora
sconosciuta al grande pubblico, del Gran Maestro della Massoneria Universale
Adriano Lemmi.
Nel
tracciare un’immagine assolutamente fuori dagli schemi di Cavour, ci rifaremo
allo studio di Carmine De Marco Revisione
della Storia dell’Unità d’Italia 1 soffermandoci solo sui punti
di maggior interesse per il nostro studio che possono essere riassunti in
questa tesi:
<< Nel corso di
queste pagine noteremo (fatto pochissimo rilevato dagli storici delle vicende
dell’unità italiana e, in ogni caso, non evidenziato) la comunanza di interessi
tra ambienti finanziari protestanti e ambienti finanziari ebraici e noteremo
anche la frequentazione del Cavour di quegli ambienti e del suo coinvolgimento,
personale e da statista, in quegli interessi. Una lettura delle vicende di
quegli anni in chiave anticattolica, o, per meglio dire, ostile agli ambienti
politici e finanziari legati al cattolicesimo, è da preferire alla stantia
storia dell’epopea risorgimentale e delle ragioni della nascita dello Stato
unitario italiano >> 1 .
Questo
scontro tra gruppi finanziari antagonisti si ripeterà ancora nel corso degli
anni Venti del Novecento, quando Mussolini edificherà il Regime: lo vedremo più
avanti. Per il momento professiamo un’intenzione: denunciare la malafede con la
quale si è tentato di fare del dittatore romagnolo un comodo capo espiatorio
per colpe che invece sono ataviche nella storia di questo Paese. La presente
analisi del contesto, delle motivazioni e dei metodi con i quali si è unificata
l’Italia ci permette appunto scoprire che Mussolini nel 1922 assunse il governo
di una nazione ben diversa da quella che ci è stata raccontata. Seguendo questo
percorso di conoscenza affermiamo che certe azioni delittuose, messe in atto
dai “poteri forti” contro milioni di italiani, possono essere rintracciate con
continuità in tutta la storia italiana, prima e dopo il ventennio mussoliniano
e anche oggi. A patto però di non cedere alla comoda ricostruzione di un Paese
della fantasia, quale quella che ci hanno consegnato il mondo accademico,
l’editoria, la televisione. La strategia del silenzio e della mistificazione,
messa in atto da una classe intellettuale complice, ha finora impedito alla
maggioranza degli italiani di comprendere fino a che punto certi giochi si
ripetano ciclicamente. Noi tenteremo quindi di identificare questi poteri e di
smascherare le azioni criminali iniziando con lo smantellare l’epopea
risorgimentale.
Iniziamo
col dire che per ben dieci anni, tra il 1834 e il 1843, il giovane Camillo
Benso Conte di Cavour conduce una vita dissoluta spostandosi continuamente tra
Ginevra, Parigi e Londra. Durante questi viaggi egli entra in contatto con
ambienti finanziari ebraici e protestanti contigui alla massoneria. Ebbe così
modo di conoscere personalmente due dei più potenti banchieri al mondo: James Rothschild
a Parigi e Odier a Ginevra. Col loro aiuto finanziario Cavour, prima di darsi
alla politica, si dedica all’imprenditoria collezionando però una sequenza
impressionante di fallimenti. La prima considerazione la lasciamo tirare
all’eccellente De Marco: << In
tutti libri da me consultati non ho mai trovato la spiegazione dell’origine dei
capitali che Cavour investiva e distruggeva. Salvo alcuni accenni ai banchieri
genovesi De La Rüe ed ai banchieri ginevrini de La Rive che finanziarono
parzialmente alcune imprese, il resto è mistero >> 2 . La
seconda considerazione proviamo a tirarla noi: il Cavour dedito alla bella vita,
al gioco d’azzardo, alla speculazione in borsa e a fallimentari attività
imprenditoriali descritto da De Marco è un soggetto in possesso di quelle
debolezze caratteriali che lo rendono perfetto per essere arruolato come
“personale straniero di rinforzo” 3 da parte di servizi segreti e
società segrete stranieri.
Nota
De Marco: << cosa sia successo nel
1850 perché da sfaccendato e dilapidatore di sostanze paterne si sia
trasformato in uomo politico, non si capisce. È logico supporre che nei suoi
viaggi in Inghilterra ed in Francia Cavour sia venuto a contatto con ambienti
della grande finanza internazionale, interessati a far conquistare nuovi
mercati ai prodotti delle industrie da loro finanziate o interessati
all’impiego dei loro capitali. In quegli anni gli Stati italiani erano
rigidamente protezionisti e non favorivano l’importazione di prodotti
dall’estero. Il primo Stato italiano ad abbattere le barriere doganali fu il
Piemonte per l’opera del Cavour: prima ministro dell’agricoltura, poi delle
finanze, infine primo ministro. La grande finanza internazionale, che
condizionava tutti i governi, ebbe interesse allora a far appoggiare le mire
espansionistiche del Piemonte, oberato di debiti interni per le precedenti
sconfitte nelle guerre di conquista e per l’attuazione della politica doganale
liberistica. Nel 1857 il saldo passivo tra importazioni ed esportazioni aveva
raggiunto i 100 milioni di lire. Era un calcolo di convenienza reciproca. Da un
lato il capitale dei finanzieri francesi ed inglesi veniva remunerato per i
prestiti, garantiti dall’appoggio dei loro governi alla politica
espansionistica del Piemonte e per i consumi dei loro prodotti. Dall’altro lato
il Piemonte attuava una politica di investimenti interni e di conquiste
territoriali. In fondo conveniva alle due parti. Gli unici a non essere
d’accordo erano i cittadini piemontesi che pagarono in tasse ed in vite umane
quella politica: ma questo aspetto del problema non interessava assolutamente i
finanzieri, Cavour e Vittorio Emanuele >> 4 .
Gli
ambiziosi programmi di Cavour, in effetti, necessitavano di ingenti capitali: << il ricorso al credito estero per
far fronte alle spese del programma ferroviario avvenne con un prestito
concluso con la banca Hambro di Londra che fruttò al netto quasi 80 milioni
>> 5. Da notare che secondo lo storico della massoneria
Enrico Nassi il gruppo inglese degli Hambro era una fucina di Venerabili “33”,
proprio come i già citati Rothschild 6 .
Aggiunge
De Marco: << L’aumento della
pressione tributaria non bastò a coprire l’aumento notevolissimo della spesa
pubblica negli anni successivi, sicché il bilancio piemontese rimase
costantemente in deficit e furono necessari nuovi ricorsi al credito. Forti
difficoltà trovò Cavour nella politica bancaria. Non riuscì infatti nel luglio
1851 a fare approvare dalla Camera il suo progetto di rafforzamento della Banca
Nazionale. Ma il progetto, che in sostanza attribuiva alla Banca il monopolio
dell’emissione di biglietti a corso legale, fu respinto. Alcuni lo giudicarono
troppo ardito; altri lo giudicarono non rispondente ai princìpi liberisti tanto
calorosamente sostenuti dallo stesso Cavour >> 7 . Sarebbe
interessante sapere chi stampava all’epoca la carta moneta del Regno Sabaudo…
Malgrado
Cavour avesse dichiarato che la riforma della finanza pubblica era una priorità
assoluta, i risultati della sua opera possono essere così sintetizzati: << Alla fine del 1853 i prestiti
esteri avevano reso un prodotto netto di oltre 304 milioni. Al primo gennaio
1859 il debito pubblico piemontese ascendeva ad oltre 786 milioni! >>
8 . Possiamo già affermare che il senso recondito dell’azione
politica del “grande statista” fosse di schiavizzare l’intero popolo italiano
ai magnati della finanza internazionale mediante il debito pubblico, come
vedremo meglio in seguito. Nel 1854 la situazione del debito pubblico era già
fuori controllo, al punto che persino il fedelissimo banchiere Hambro
pretendeva un controvalore in cambio di nuovi finanziamenti: Cavour si rivolse
allora all’altro “amico”, il Rothschild, che erogò un nuovo prestito per 35
milioni. Quello che De Marco sembra non cogliere, parlando di un Cavour offeso
che rompe con il banchiere Hambro, è il fatto che i Rothschild – altra storica
culla di venerabili “33” – fossero consociati a Londra proprio con il gruppo
Hambro, come ci informa Nassi: ciò farebbe pensare a un sottile gioco delle
parti per estorcere tassi di interesse ancora più pesanti al Regno Sabaudo.
Un’altra
tremenda mazzata alle finanze fu la partecipazione alla guerra di Crimea, grazie
alla quale il Regno Sabaudo poté sedersi al tavolo della pace con le grandi
potenze – Francia, Gran Bretagna e Russia – ed esporre il problema dell’unità
d’Italia. A quel tempo fece scalpore una lapidaria sentenza: << Quindici mila fra di voi - scriveva
Mazzini in un appello ai soldati che stavano per partire per la Crimea e in una
lettera aperta al Cavour - stanno per essere deportati in Crimea. Non uno forse
tra voi rivedrà la propria famiglia. Per servire un falso disegno straniero, le
ossa vostre biancheggeranno calpestate dal cavallo del cosacco >> 9
. L’aspetto più curioso della vicenda non risiede certo nel ben noto
presenzialismo che sempre ha afflitto la politica estera italiana, quanto
piuttosto al modo in cui maturò la decisione dell’intervento militare. Il
governo inglese infatti si era limitato a chiedere al Regno del Piemonte un
contingente di 10.000 soldati da schierare in Crimea sotto il proprio comando e
a proprie spese. << Il Piemonte,
orgogliosamente, non accettò che i suoi soldati fossero pagati come mercenari,
voleva fornirli da alleato. Unico problema: non aveva come mantenerli, quindi
chiese in prestito i soldi. Solo che, invece di chiedere in prestito la somma
che occorreva a mantenere i soldati, 600 mila sterline, cioè 15 milioni di
lire, ne chiedeva due milioni, cioè 50 milioni di lire >> 10 al
tasso di interesse del 4% annuo. Il governo di Sua Maestà dovette farsi
garante, di malavoglia, dei prestiti usurai concessi dall’oligarchia
finanziaria degli “Illuminati”. Mentre questi fatti vengono tuttora taciuti per
pudore dai nostri intellettuali sui giornali e sui libri, i contemporanei
ebbero invece chiara consapevolezza della realtà delle cose: << Il giornale Armonia (19, 20, 30
gennaio 1855) sostenne che l’alleanza fosse avvenuta a condizioni "non
troppo onorevoli", che da essa vi erano da attendersi solo
"umiliazione, guerra e debiti", e che alla sua origine v’era la
disperata situazione finanziaria, la quale soltanto aveva indotto Cavour a
"vendere" 15 mila soldati piemontesi per "un imprestito di 25
milioni" >> 11 . Malgrado 2.000 caduti, per una serie
di ragioni, che De Marco illustra molto bene nel suo saggio, il Regno Sabaudo
non otterrà nessun vantaggio al tavolo della pace: l’intera guerra, dunque, fu
promossa con l’unico obbiettivo di accrescere l’indebitamento del regno nei
confronti dell’oligarchia finanziaria internazionale. Ancora una volta, dunque,
il conte di Cavour agiva come un semplice esecutore degli ordini degli
“Illuminati”.
La
Seconda guerra d’indipendenza è un esempio ancora più smaccato di questa
teoria. Essa fu decisa a tavolino da Napoleone III e da Cavour durante
l’incontro di Plumbièrs. Così De Marco commenta il resoconto ufficiale di
quell’incontro: << La guerra all’Austria andava fatta per
consentire al Piemonte, con i nuovi acquisti territoriali, di poter ripagare
l’enorme debito accumulato anche con le sue guerre precedenti. In pratica i
creditori dovevano finanziare ancora una volta il Piemonte per poter riprendere
i vecchi ed i nuovi prestiti. Dall’altro lato Napoleone III facendosi garante
della riuscita della guerra, guadagnava Nizza e la Savoia, scaricando il costo
della guerra sul Piemonte: tipico caso di usura! Per Cavour non aveva
importanza, un debito in più uno in meno >> 12 .
Per
le ragioni sopra esposte il 20 novembre 1855 re Vittorio Emanuele II e il conte
di Cavour partono alla volta di Parigi: <<
gli incontri più importanti Cavour li ebbe con Rothschild e con Isaac Péreire,
i due massimi esponenti del mondo finanziario francese. Péreire gli parve
"un homme étonnement habile" "un uomo straordinariamente
abile" dotato di "plus d’esprit que tous les banquiers de Paris
réunis" "più immaginazione di tutti i banchieri di Parigi". Con
i ministri Magne e Rouher e con i finanzieri interessati, che, in aggiunta al
Laffitte, presidente della società ferroviaria Vittorio Emanuele, includevano i
ricordati Rothschild e Péreire e altri ancora, preparò l’accordo poi sanzionato
il 7 dicembre in vista della fusione della Vittorio Emanuele con altre iniziative
ferroviarie francesi […] in tal modo 200 milioni, raccolti sui mercati
finanziari stranieri, avrebbero fecondato l’economia del paese […] Sempre negli
incontri avvenuti a Parigi, Cavour, spinto da Bolmida, presidente della Cassa
di Commercio e corrispondente torinese di Rothschild, concluse con questi un
accordo per la creazione di una grande banca mobiliare e Rothschild si
dichiarava disposto a sostenere una impresa che doveva diventare "une
affaire Italienne", atta a estendere l’influenza del Piemonte in tutta la
penisola italiana >> 13 . Ecco quindi provati i contatti diretti di Cavour con gli
“Illuminati” ed ecco spiegato chiaramente il loro disegno: “fatta l’Italia,
bisogna fare gli italiani” – celebre motto erroneamente attribuito a Massimo
d’Azelio – significherebbe perciò vendere il popolo d’Italiano al potere
usuraio della finanza sionista e ridurlo, mediante un debito
inestinguibile, nella triste condizione di
una massa di schiavi. Date, nomi e fatti sono qui chiaramente esposti: se
qualcuno ha qualcosa da obbiettare li contesti pure, ma – per favore – non si
tiri in ballo la solita accusa di antisemitismo per tacitare discorsi scomodi.
E’ anche giusto, a nostro avviso, che la gente comune venga informata di queste
cose: l’ignoranza, infatti, non paga mai.
Attraverso
la narrazione di De Marco citiamo altre prove a sostegno della nostra ipotesi:
<< Si deve aggiungere che tra i due
abili personaggi, Cavour e Rothschild, l’abile era solo quest’ultimo. Infatti
Rothschild subito ebbe esitazioni e perplessità: alcune delle iniziative
proposte non parevano al grande banchiere sufficientemente importanti né
sufficientemente redditizie per ciò si posero gravi problemi per la
sottoscrizione dell’aumento di capitale riservato a Rothschild. Cavour fu
costretto a far collocare il capitale non sottoscritto oltre che sul mercato
italiano anche a Bruxelles, Amsterdam e Ginevra, provocando un sensibile
ribasso del titolo della Cassa di Commercio. Non migliori risultati ebbero
altre iniziative bancarie promosse da Cavour, come quella del Credito Profumo
che visse tra difficoltà e fu sciolto nel 1861 […] Uno dei risultati del
viaggio a Parigi fu la conclusione con Rothschild e con la Cassa di Commercio e
Industria di Torino del prestito di 40 milioni autorizzato con la legge del 26
giugno 1858. Rothschild e la Cassa avevano assunto ciascuno metà
dell’operazione, ma la Cassa fungeva da intermediaria con altri istituti
torinesi e genovesi, e di fatto l’affare fu accentrato nelle mani di
Rothschild. Questo prestito doveva dare a Cavour una relativa tranquillità e
consentirgli la sua azione diplomatica di provocazione dell’Austria >> 14
Mentre
Cavour briga con Napoleone III e Vittorio Emanuele II per arrivare a un
conflitto armato con l’Impero asburgico un testimone d’eccezione, il Massari,
riferisce in data 25 dicembre 1858 la smania di Rothschild per avere
indiscrezioni da Cesare Beretta sul contenuto del discorso della Corona.
Vittorio Emanuele II avrebbe scelto parole tali da provocare una crisi
diplomatica con Vienna? Gli speculatori attendevano ansiosi e il più ansioso
tra loro era James Rothschild perché era particolarmente esposto in tutta la
vicenda. Perciò il 9 gennaio successivo Cavour confida al Massari la
preoccupazione, all’interno del Consiglio dei Ministri, per il tono minaccioso
del discorso del re: si teme una reazione negativa alla Borsa di Parigi. Già in
data 11 gennaio 1859 Massari annota le nuove preoccupazioni di Cavour: << mi dice: "Sarà più facile
trovar danari dopo aver fatta toccare una sconfitta agli austriaci che
prima". Sir James stamane mi mostra una lettera di John Samuel nella quale
è detto che a Londra "all Jews believe in war", "tutti gli Ebrei
sperano nella guerra" >> 15 .
Il
17 gennaio 1859 il principe Napoleone, figlio di Napoleone III, arrivava a
Torino per sottoscrivere assieme a Vittorio Emanuele II una serie di accordi: << il trattato prevedeva l’impegno
della Francia ad aiutare il Piemonte nel caso che fosse attaccato dall’Austria;
la costituzione alla fine della guerra di un regno dell’Alta Italia, con
possibilità di annettere i territori delle Legazioni; la cessione alla Francia
della Savoia (la sorte della contea di Nizza era rinviata ad una successiva
occasione). Al trattato erano annesse due convenzioni, una militare e una
finanziaria. La prima stabiliva che le forze alleate da impegnare in Italia
sarebbero state di circa 300 mila uomini, 200 mila francesi e 100 mila sardi;
che il comando supremo sarebbe spettato all’imperatore. La seconda stabiliva
che le spese di guerra sarebbero state rimborsate alla Francia dal regno
dell’Alta Italia per mezzo di annualità corrispondenti a un decimo delle
entrate annue del regno stesso >> 16 . Quest’ultimo
aspetto, di natura finanziaria, sarà fondamentale per chiarire il successivo
svolgersi degli avvenimenti.
Lasciando
da parte il mistero, tuttora irrisolto, del motivo per cui l’Impero Asburgico
si lasciò attirare nella Seconda guerra d’indipendenza, vediamo invece quale fu
l’esito di quello stranissimo conflitto. Scrive De Marco:
<< Napoleone nel
bel mezzo della guerra all’Austria si fermò. Invece di marciare su Vienna,
firmò l’armistizio di Villafranca con l’imperatore d’Austria, senza consultare
né Cavour né Vittorio Emanuele. Ai piemontesi non rimase altro che accettare la
situazione, non prima, però, di rinegoziare con Napoleone III il costo della
guerra. Napoleone, che non era stato ai patti, poiché si era accordato
direttamente con l’Austria, invece di addebitare l’intero costo della guerra,
circa 360 milioni, chiese al Piemonte di pagare solo 60 milioni. I documenti
non chiariscono fino in fondo lo strano comportamento di Napoleone III. È
indubbio che delle forti, fortissime, pressioni esterne fermarono Napoleone,
che credeva di avere Francesco Giuseppe in pugno, e obbligarono l’imperatore
austriaco ad accettare le trattative di pace con le forze militari ancora
integre. Tra queste pressioni, ci furono quelle di natura politica e militare
da parte della Prussia, dell’Inghilterra e della Russia. Ma non furono le sole
e le principali; bisogna tenere conto, dal punto di vista austriaco, anche
della rivolta ungherese, delle divisioni tra i militari, tra i politici e tra i
diplomatici, della situazione economica e finanziaria e, principalmente, degli
interessi a questa legati >> 16
.
De
Marco a questo punto nota l’enigmatica presenza di Alessandro Bixio, fratello
del più noto Nino, e la collera mostrata nei suoi riguardi dal principe
Girolamo Bonaparte, che fino a quel momento era stato suo amico. La faccenda si
fa assai intrigante quando teniamo conto che Bixio era un uomo d’affari legato
ai banchieri ebrei Rothschild e Péreire. Cavour lo conobbe personalmente
durante un viaggio a Parigi nel 1852. Qui il nostro “statista” ebbe il
privilegio di osservare con i suoi occhi la singolare rievocazione del miracolo
dei pani e dei pesci messo in atto dagli “Illuminati” all’indomani del colpo di
stato di Napoleone III: << I capitali sorgono da tutte le parti. La prosperità
finanziaria è immensa >> scrisse Cavour, che a Parigi fu folgorato come San
Paolo sulla via di Damasco. Fu Alessandro Bixio l’intermediario << che fece da tramite tra Cavour e
gli ambienti bancari ebraici. In quei colloqui nacquero tutte le iniziative
industriali, in particolare ferroviarie, come la Vittorio Emanuele, bancarie e
finanziarie che caratterizzeranno i successivi sette anni del ministero Cavour,
fino alla guerra con l’Austria >> 17 .
Ecco
quindi come De Marco spiega il ruolo interpretato da Alessandro Bixio al
termine della guerra: << gli
interessi rappresentati dal Bixio vinsero su quelli militari e dinastici dei
napoleonidi! Ecco alla conclusione dei progetti discussi a Parigi nel 1852 il
controllore: la presenza di Alessandro Bixio. Gli effetti della sua presenza si
videro subito >> 18 , intendendo con ciò l’armistizio
sottoscritto a Villafranca tra Napoleone III e Francesco Giuseppe. Questo basta
e avanza a spiegare il motivo della collera del principe Girolamo Napoleone nei
riguardi di Bixio.
A
questo punto l’attenzione di Carmine De Marco si sposta sulla situazione
interna dell’Impero Asburgico: <<
La situazione finanziaria dell’impero austriaco, prima e durante la guerra con
il Piemonte, dava origine alle più serie preoccupazioni. Il riflusso
dall’estero di titoli austriaci, in corso dai primi del 1859, aveva accentuato
il drenaggio delle risorse valutarie della Nationalbank che aveva dovuto
sospendere i pagamenti in contanti, mentre l’aggio sull’argento saliva in
maggio al 40 per cento e il corso dei titoli di Stato austriaci crollava a
Francoforte da 81 fiorini in gennaio a 38 in aprile. Tutta l’economia del paese
veniva dunque investita da gravi tensioni inflazionistiche, mentre la capacità
di importazione risultava drasticamente ridotta, ed il ministro delle finanze
Bruck doveva mettere mano alle riserve metalliche della Nationalbank, con grave
danno del credito al paese, per procurare all’esercito le forniture necessarie.
Già per queste ragioni era chiaro che lo sforzo bellico non avrebbe potuto
protrarsi più a lungo >> 19 .
Le
informazioni fornite da De Marco sull’attacco speculativo scatenato dalla
finanza internazionale contro l’Impero asburgico si sposano perfettamente col
quadro esposto nel capitolo precedente a proposito dell’opera di infiltrazione
ad altissimo attuata dagli “Illuminati” per mezzo dei seguaci di sir
Bowler-Lyton: << gli inglesi
reclutarono, richiamandosi a un passato (spesso inventato) di comunanze
nordiche e ideali paganeggianti, diversi esponenti dei Servizi, della
diplomazia e dell’establishment austriaco […] Lo scopo, in principio, fu
meramente economico e consistette, in buona sostanza, nell’aggiogamento delle
borse valori e merci di Vienna >> 20 .
Lasciamo
all’eccellente De Marco un primo tentativo di conclusione: << Quattro giorni dopo l’armistizio [!], il 15 luglio 1859,
durante il primo consiglio dei ministri dopo la sconfitta militare,
l’imperatore Francesco Giuseppe rendeva pubblico il famoso Manifesto di
Laxenburg col quale si affrettava a promettere alla borghesia un sostanziale
mutamento di rotta […] Di lì a poco il Regolamento industriale austriaco
abrogava il regime delle corporazioni, introduceva la libertà del lavoro, dava
l’avvio alla prima rivoluzione industriale dell’Austria. Gli ebrei di Vienna ed
i protestanti di Germania ringraziarono. Quattro giorni dopo la battaglia di
Solferino, la borsa austriaca ebbe un rialzo! In novembre l’imperatore
Francesco Giuseppe approvò la proposta di abolire molte restrizioni residue
imposte alle comunità ebraiche dell’impero. Istituì, prima della fine dell’anno
il Comitato per il debito di Stato […] poiché concordava con il ministro delle
finanze Bruck sulla necessità di rassicurare gli investitori stranieri.
Considerazioni: Insomma, vendendo e ricomprando i titoli del debito pubblico
austriaco, la grande finanza internazionale faceva la guerra e la pace! Per
amore o per forza i grandi mercati si dovevano aprire ai grandi capitali. Che
questo fosse il principale scopo nella guerra fatta da Napoleone (o fatta fare
a Napoleone) all’Austria, è dimostrato dall’armistizio di Villafranca, senza
giustificazioni militari da parte della Francia e dal manifesto di Laxenburg
>> 21 .
La
seconda conclusione tenteremo di formularla in autonomia, confrontando la
seconda guerra d’indipendenza con la terza (1866).
Quest’ultimo,
disastroso conflitto – così come ci viene descritto nella tradizionale
ricostruzione di Arrigo Petacco 22 – si presentano parecchi punti
interrogativi. Il primo: l’esercito sabaudo, ancora in gran parte integro
malgrado la sconfitta di Custoza, si ritira senza opporre alcuna resistenza di
fronte alla tumultuosa avanzata dell’esercito asburgico. Fu così che una
sconfitta non irreparabile sul piano tattico – 5 delle 6 divisioni di Vittorio
Emanuele II erano state battute, su un totale di 20 divisioni mobilitate – si
trasformò in una sconfitta strategica di dimensioni inaudite: una ritirata
strategica generale, che lasciava l’intera Pianura Padana alla mercé
dell’invasore straniero. Scrive Petacco: <<
Vittorio Emanuele era ancora convinto che la battaglia non fosse perduta, così
come l’arciduca Alberto (il comandante nemico) era convinto di non averla
ancora vinta. Disgraziatamente, a non essere convinto, era il generale La
Marmora il quale, spento, avvilito, con la mente confusa, si considerava
sconfitto prima ancora di esserlo. Infatti, la guerra fu effettivamente perduta
soltanto il 1° luglio quando l’arciduca Alberto, dopo avere attraversato il
Mincio ed essersi spinto a cavallo fino al basso Oglio senza incontrare
resistenza, si persuase di essere lui il vincitore. Nel frattempo La Marmora
aveva diramato l’ordine di ripiegare dietro il fiume Oglio ed era costata
fatica ai suoi subalterni convincerlo a fermarsi lì. Lui voleva addirittura
ritirarsi dietro l’Adda. Così, dopo poco più di ventiquattro ore, finiva una
guerra che era costata più sangue ai vincitori che ai vinti: 5.150 fra morti e
feriti tra gli austriaci, 3.281 agli italiani >> 23 .
Il
secondo punto interrogativo: il Regio Esercito non aveva un comandante in capo
né qualcosa che potesse essere lontanamente paragonato a una catena di comando.
E’ un fatto assolutamente anomalo anche agli occhi di un profano di cose
militari come il sottoscritto. Di fatto il generale La Marmora si dimise dalla
carica di Ministro della Guerra per assumere il comando in capo dell’esercito.
Tale speranza venne però frustrata da Vittorio Emanuele, il quale non solo non
rinunciò al comando nominale dell’esercito ma addirittura volle essere presente
sul campo di battaglia. La Marmora, masticando amaro, dovette accontentarsi
della carica di Capo di Stato Maggiore alla quale ambiva anche il generale
Cialdini. Quest’ultimo fu messo al comando di 8 schierate a Sud del Po e gli
furono lasciati ampi poteri decisionali. Di fatto a Custoza La Marmora
trattenne presso di sé 6 divisioni del Regio Esercito lasciando cinicamente che
altrettante divisioni agli ordini di Vittorio Emanuele II fossero fatte a pezzi
dall’esercito asburgico. All’indomani della sconfitta al re, che gli chiedeva
conto della sua condotta, La Marmora rispose in modo criptico: << Vostra Maestà ha giusto il dire, ma
bisognerebbe sapere il tutto >> 24 . Lo stesso Petacco a
questo punto scrive: << Quale fosse
il << tutto >> , però, non lo spiegò >> 25 .
Forse bisognerebbe rivolgere la domanda al signor Rothschild: lui,
evidentemente, conosceva “il tutto” se vogliamo dar credito alla lettera
dall’ambasciatore francese a Londra, Charles-Maurice de Talleyrand, nel 1830, e
nella quale si trova chiaramente descritta la strategia della finanza sionista.
Afferma l’ambasciatore: << i
Rothschild non si fanno scrupoli, combattono senza mezze misure chi minaccia di
intaccare il loro potere e non si lasciano fermare nemmeno dalle guerre, anzi.
La loro capacità sono tali che riescono a essere al contempo i banchieri di
Cavour e di Metternich e la loro spregiudicatezza è pari alla loro abilità
>> 26 . Vi era poi il generale Cialdini, rivale di La
Marmora: vistosi rifiutato l’incarico di Capo di Stato Maggiore, egli aveva
tuttavia ottenuto il comando di 8 delle 20 divisioni dell’esercito, schierate
sul basso Po, e ampia autonomia decisionale. Di fatto come La Marmora a Custoza
aveva abbandonato alla sconfitta Vittorio Emanuele, così Cialdini attese con le
mani in mano la sconfitta di re Vittorio Emanuele II e la ritirata di La
Marmora malgrado con la poderosa massa di 8 divisioni dovesse fronteggiare
forze nemiche ridicole. Appena seppe della sconfitta del re a Custoza e
dell’imbelle ritirata del generale La Marmora – che di lì a poco si sarebbe
dimesso – Govoni disobbedì all’ordine del sovrano di attraversare il Po e,
inspiegabilmente, si ritirò a Modena con tutte le sue forze. Non prima,
tuttavia, di aver scaricato tutte le responsabilità del disastro su La Marmora
e di aver cercato l’autorizzazione dal ministro della Guerra Ignazio De Genova
di Pettenago – il quale, da Firenze, se ne lavò le mani come Ponzio Pilato
rispondendo: << a queste cose
dovreste pensarci voi generali >> 27 . Infine c’erano
Garibaldi e i suoi volontari, che però non erano inquadrati nell’esercito
sabaudo, nel Trentino Alto Adige.
Il
terzo elemento anomalo: la Regia Marina gettò la spugna non dopo la sconfitta
subita a Lissa, ma addirittura ancor prima che si combattesse. L’ammiraglio Carlo Pellion conte di Persano,
comandante dell’Armata Navale, aveva tergiversato, cercando di evitare in tutti
i modi di combattere anche in presenza di espliciti ordini del governo. Solo
quando il ministro De Pretis, nel corso di un incontro personale, minacciò di
sbarcarlo Persano si decise all’azione. I due comandanti in subordine erano gli
ammiragli Vacca e Albini: il primo, scontento per essere stato scavalcato – a
suo dire – proprio da Persano nel comando; l’altro perché gli era stato
assegnato il comando delle navi più antiquate. Mal consigliato Vacca, Persano
improvvisò un’operazione anfibia contro l’isola fortificata di Lissa che sfociò
in una sconfitta clamorosa. Al comando della forza navale da sbarco vi era
Albini, che si era già mostrato contrario al piano: infatti non tentò neppure
lo sbarco, disobbedendo agli ordini. Una volta comparsa sulla scena la flotta
austriaca, la situazione per Persano precipitò. Infatti Albini e Vacca, << rivelatisi renitenti ai suoi
ripetuti ordini di intervenire nella battaglia >> 28 ,
lasciarono Persano e la sua squadra navale da sole a sostenere l’intero peso
della battaglia. Malgrado le dure perdite, la superiorità numerica e qualitativa
della Regia Marina restava così netta da rendere ancora possibile la vittoria.
Ma Persano << come La Marmora di
Custoza, si sentiva sconfitto prima di avere portato a termine la sconfitta
>> 29 . Probabilmente l’ammiraglio Persano non avrebbe mai
potuto immaginare il contenuto di una << sconsolata lettera che l’ammiraglio
asburgico Wilhelm von Tegetthoff scrisse a Emma Litteroth il 26 luglio 1866,
ovvero meno di una settimana dopo quell’azione, mediante la quale spiegava,
tanto per incominciare, che il rapporto di forze tra gli italiani e gli
austriaci non era stato modificato dallo scontro. Pertanto la squadra di Pola
resta in condizioni di inferiorità e, di conseguenza, il blocco italiano di
Venezia continuava come prima […] Il preteso mancato sfruttamento del successo
subito rimproveratogli, di conseguenza, non era, per il comandante della flotta
austriaca, che il frutto di fantasie di << quell’accolita di scribacchini
farisei, i quali legiferano a Vienna, seduti dietro a una stufa, in materia
navale >> 30 .
In
conclusione tanto a Custoza quanto a Lissa due episodi negativi, ma non
decisivi, si tramutarono in sconfitte strategiche di vaste proporzioni e in
dure umiliazioni solo a causa della mancata volontà di generali e ammiragli di
combattere. Abbiamo ancora una volta la sensazione che altri interessi, diversi
da quelli militari e politici, fossero in gioco: proprio come ipotizza De Marco
in occasione della Seconda guerra d’indipendenza.
Alla
fine manovre più diplomatiche che militari portarono all’annessione del Veneto:
ceduto da Francesco Giuseppe a Napoleone III e da questi a Vittorio Emanuele II
dopo un plebiscito farsa. Poiché il governo austriaco si era già rassegnato – già
prima dell’inizio delle ostilità – a una simile soluzione, che però il governo
italiano non aveva accettato, la Terza guerra d’indipendenza fu una guerra
inutile sia per i piani dei Savoia sia per i destini dei popoli d’Italia. Essa
non fu, tuttavia, senza conseguenze sotto altri punti di vista. Il governo
italiano si era fortemente indebitato per preparare la guerra nella speranza
che il nemico vinto avrebbe poi pagato pesanti indennità ai vincitori – come
era già capitato al Regno del Piemonte, sconfitto, al termine della Prima
guerra d’indipendenza. Quei debiti contratti con gli esponenti del mondo
finanziario, su tutti i Rothschild e gli Hambro, andavano ora onorati: << L’Italia intera, quell’Italia
contadina che raccoglieva la stragrande maggioranza della popolazione, ora
stava tutta piangendo a dirotto dovendo pagare il conto delle costose spese
militari sostenute per realizzare quel Risorgimento al quale era rimasta del
tutto indifferente […] Cambray-Digny si era rivelato un così valido
amministratore delle finanze della Real Casa che Vittorio Emanuele lo aveva
imposto come ministro delle Finanze affinché risanasse anche le casse dello
Stato […] Non potendo tassare i grandi patrimoni e le sinecure dei ceti
privilegiati […] aveva alienato tutti i beni ecclesiastici ancora vendibili
fino a quando non era intervenuto il Parlamento per fermarlo […] Ostinato
comunque nel suo intento di raggiungere il pareggio del bilancio, raccolse
altro denaro appaltando il monopolio dei tabacchi, come era già stato fatto per
le ferrovie, a una società privata […] Nell’affare dei tabacchi, come era
accaduto per l’alienazione dei beni ecclesiastici, oltre le banche straniere
erano entrati in gioco anche i primi capitalisti italiani, fra i quali emergeva
il livornese Pietro Bastogi, che già si era assicurato l’appalto delle ferrovie
meridionali corrompendo deputati e giornalisti. Ma l’auspicato pareggio era
ancora lontano e da vendere non c’era più nulla […] Il fantasioso ministro
fiorentino […] non esitò infatti a sfidare l’impopolarità aumentando ancora le
vecchie tasse e inventandone addirittura di nuove. Oltre all’imposta sulla
successione […] quella sulle finestre […] ma il colpo di mano più odioso di
Cambray-Digny fu il ripristino della << tassa sul macinato >> […]
Contro questo << Governo non atto ad altro che a far l’esattore delle
tasse >> come scrisse in quei giorni Garibaldi […] si scatenò la rabbia
dei contadini che si sentivano provocati da quell’implacabile contatore posto
davanti ai loro occhi che li obbligava a pagare in anticipo il misero frutto
del loro sudore. Anche i mugnai, trasformatisi in forzati esattori, si unirono
alla protesta che esplose dovunque […] La repressione, naturalmente, fu
durissima. Il governo non esitò a proclamare i consueti stati d’assedio e affidò
i pieni poteri al generale Cadorna il quale, per domare i rivoltosi di Parma,
Reggio, Modena e Ravenna, non esitò a far scendere in campo l’esercito con il
tragico risultato che rimasero sul terreno 250 dimostranti morti e un migliaio
di feriti >> 31 .
Torniamo
ora indietro all’ 8 ottobre 1859, quando a Torino, con la benedizione del
“fratello in spirito” Cavour – rimasto scottato dalla recentissima Seconda
guerra d’indipendenza, di cui si è detto – viene fondata la Loggia Ausonia:
nasce così la massoneria contemporanea. Essa si ramifica rapidamente su tutta
la penisola assorbendo precedenti società occulte o paramassoniche già
esistenti e presenti spesso da lunga data. Appena costituita la massoneria
italiana si pone sotto l’obbedienza del Grande Oriente di Francia. Secondo la
descrizione che ne fa lo storico della massoneria Enrico Nassi << i motivi sono essenzialmente tre:
1.
quella francese è la massoneria più
laica e compatta d’Europa. Teorizza la caduta del potere temporale dei papa […]
Lo stesso Cavour, con linguaggio rituale, considera la Franc-maconnerie una
<< pietra angolare >> della sua strategia diplomatica. Non a caso
il suo ambasciatore a Parigi è Costantino Nigra, un maestro elevato alla
dignità del 33° grado del Rito adottato dai francesi;
2.
più di quella inglese, la comunione
francese ha una consolidata tradizione di dinamiche interferenze col modo
profano della politica, delle armi e della finanza […]
3. i
templi sono stipati di banchieri in grembiule di pelle e maglietto. Questo è un
fatto di grande significato se si pensa che il sistema bancario francese,
dominato dalla casa Rothschild, gran culla di venerabili << 33 >> ,
aveva l’egemonia assoluta del mercato europeo dei capitali dal quale dipendeva
il regime finanziario del regno sabaudo. Stando all’archivio storico della
Banca d’Italia, il debito estero sabaudo, contratto e gestito dai francesi, a
cavallo del 1860 ammontava a 3 miliardi contro i nove del prodotto interno
lordo: era un rapporto molto alto per quel tempo; ed oggi, rifacendo il verso
al linguaggio massonico, possiamo considerarlo la << pietra angolare
>> del debito pubblico che nel giro di centoventi anni è diventato una
voragine. Non è tutto: la casata dei Rothschild – consociata a Londra con il
gruppo degli Hambro, altra storica culla di << 33 >> - in quel
periodo controllava l’83% dei pagamenti all’estero dei titoli di Stato e la
quasi totalità delle vendite immobiliari sul mercato europeo, compresi i beni
che venivano progressivamente espropriati agli ordini ecclesiastici. Ma soprattutto
garantiva i prestiti esteri che consentivano a Cavour di portare avanti
>> i suoi
ambiziosi piani 32 .
Incrociando
le informazioni di De Marco, Petacco e quelle di Nassi, si giunge alla
paradossale conclusione che le guerre d’indipendenza abbiano avuto due
obbiettivi: per prima cosa arricchire la finanza sionista mediante
l’indebitamento degli Italiani; e inoltre quello di svendere l’intero
patrimonio immobiliare della Chiesa cattolica in Italia, secondo un copione già
visto al tempo della Rivoluzione francese. Attraverso le guerre d’indipendenza
si affermò anche il potere di una nuova classe sociale, che andava a sostituire
il clero e l’antica nobiltà: uomini politici corrotti, avidi banchieri e
faccendieri della peggior risma – tutti riuniti all’interno dei templi
massonici – assunsero il ruolo di esattori per conto della finanza sionista
rappresentata dai già citati Rothschild, Hambro, Perrier e così via. Attraverso
una gestione scriteriata della cosa pubblica, i nuovi tecnocrati tanto cari a
Saint-Yves d’Alveydre avrebbero perpetuato di generazione in generazione la
schiavitù del popolo italiano nei confronti dei banchieri stranieri.
Leggiamo
ora l’analisi di Marco Pizzuti: <<
per conoscere veramente il senso del Risorgimento italiano è indispensabile
innanzitutto riflettere sul comune denominatore che lega tutti (con rare
eccezioni) i suoi principali protagonisti […] Gian Domenico Romagnosi, Giuseppe
Mazzini, Francesco Crispi, Adriani Lemmi (banchiere massone del Risorgimento
coinvolto nel famoso scandalo della Banca Romana del 1892), Camillo Benso Conte
di Cavour, Filippo Buonarroti, Massimo D’Azelio, Luigi Luzatti (banchiere di
origine ebraica che rivestì le più alte cariche di governo), Goffredo Mameli
(di cui ci resta il famoso inno nazionale), Ernesto Nathan (Gran Maestro
massone e finanziere ebreo), Silvio Pellico, Nino Bixio, Bettino Ricasoli,
Guglielmo Oberdan, Vittorio Emanuele Orlando e Giuseppe Garibaldi furono tutti
illustri membri della massoneria […] Ma la massiccia occupazione dei ruoli di
potere da parte degli uomini della confraternita non si limitò solo all’arena
politica e riguardò ogni aspetto sociale e culturale nazionale […] Giovanni
Pascoli, Ugo Foscolo, Gabriele D’Annunzio, Giosuè Carducci, Vincenzo Monti,
Niccolò Paganini, Carlo Pisacane e Vittorio Alfieri, tanto per citare solo
alcuni tra coloro che hanno indossato ufficialmente il rituale grembiule
massonico >> 33.
Pur
partendo da dati diversi da quelli di De Marco anche Pizzuti si allinea alla
nostra tesi secondo la quale il Risorgimento sarebbe un esperimento studiato a
tavolino dagli “Illuminati”. Sentite le parole di Pizzuti a proposito di
Cavour: << si può ragionevolmente
supporre che tutta la politica savoiarda di cui era portavoce venisse decisa da
personaggi come lord Palmerson (insigne massone) e A. Pike (Gran Maestro
dell’ordine dedito al culto luciferiano gnostico e promotore dell’odio
razziale) >> dal momento che <<
tutte le logge nazionali sono coordinate “dall’alto” (dai soliti finanzieri
invisibili) per seguire un filo comune. Secondo l’Acacia Massonica Camillo
Cavour […] prendeva direttamente ordini dai leader della fratellanza
internazionale. Non può quindi apparire un caso il fatto che Cavour avesse
stretti rapporti con i Rothschild e si fosse formato politicamente proprio in
Inghilterra, il paese dove venne introdotto ai segreti dell’associazione di cui
entrò a far parte in seguito >> ovvero la massoneria 34 .
La
massoneria era un fenomeno sociale e politico che abbracciava l’intera civiltà
occidentale dall’Europa al continente americano. Nel corso della nostra
ricostruzione abbiamo però visto che nel XIX secolo il mondo finanziario
internazionale impiegava la Contro-Chiesa come filtro tra sé stessa e il mondo
della massoneria dalla quale provenivano quei “bassi iniziati” che avrebbero
schierato le armate di tecnocrati necessarie a governare gli Stati moderni –
ovvero a manipolare le masse – e la complessa macchina dell’economia
capitalistica – ovvero a gestire il conflitto tra capitale, produzione e forza
lavoro. A un’analisi superficiale parrebbe quasi che questa dimensione sia
assente nella Storia del Risorgimento, trovandosi esso schiacciata tra
l’ateismo militante della massoneria italiana e il fanatismo antimassonico
della Chiesa cattolica. In realtà un filtro, uno schermo esiste anche in questo
caso: la sua importanza, nei disegni degli “Illuminati”, è tale che se non ci
fosse sarebbe stato necessario inventarlo. Come appunto fu. Stiamo parlando del
“movimento carbonaro”.
Seguendo
la ricostruzione di Pizzuti – che si
fonda, a quanto ci pare di capire, sull’autorità di Epiphanius – si può
dire che << La Carboneria […] sarebbe stata fondata nel 1815 dal massone
genovese Antonio Maghella proprio per portare avanti lo stesso programma
politico della rivoluzione francese. Organizzata in “Vendite” su vari livelli,
secondo il classico schema massonico, essa operava in stretto contatto con i
supremi consigli del 33° grado del Rito Scozzese, il cui vertice si chiamava
appunto “Alta Vendita”, un collegio internazionale composto da quaranta membri.
Nel 1847 si riunì a Strasburgo un Convegno Internazionale delle massonerie per
preparare il piano rivoluzionario che avrebbe condotto alla nascita di una
confederazione europea. Nel 1848 le frange insurrezionaliste passarono
all’azione guidando e fomentando rivolte a Parigi, Berlino, Vienna, Praga,
Milano, Venezia, Napoli e Roma. Ma è bene sapere che sia Giuseppe Mazzini
quanto l’intero ordine dei carbonari appartenevano agli Illuminati di Baviera
>> 35 .
A
questo punto Pizzuti pare perdere il bandolo della matassa facendo un vago
accenno alla fede di Mazzini nella reincarnazione, lì erroneamente attribuito a
un non ben identificato culto massonico. In realtà nel XIX la massoneria si era
distaccata dalla sua originaria dimensione spirituale – “magica” e “alchemica”
direbbe Giorgio Galli – pur conservando intatto l’antico patrimonio simbolico e
rituale 36 . Proprio per questo si aprirono gli spazi di manovra per
l’azione sovversiva di una vera e propria Contro-Chiesa. La reincarnazione è un
principio religioso proprio delle religioni indiane: innanzitutto l’Induismo e
il Buddismo, ma anche la Società Teosofica di madame Blavatsky. Erano queste le
misteriose credenze religiose di Mazzini? Ancora Pizzuti, quasi inavvertitamente,
ce lo conferma parlando della collaborazione tra Mazzini e Anne Beasant, che
succedette alla Blavatsky alla guida della Società Teosofica.
Un
altro accenno è degno di essere maggiormente investigato: << Mazzini inoltre aveva come stretto collaboratore l’israelita
Henry Mayer Hyndman, un marxista a capo dell’associazione chiamata The National
Socialist Party >> 37 . Poiché l’israelita Hyndman figura
tra i fondatori della Fabian Society, uno dei centri motori della cospirazione comunista
38 , possiamo dunque additare nelle società carbonare quel secondo
livello occulto che si celava dietro alla massoneria italiana. Ciò parrebbe
confermato, indirettamente, dalla ben nota amicizia di Mazzini col grande
“illuminato” americano Albert Pike.
Resta
sempre sullo sfondo, naturalmente la figura inquietante di James Rothschild, la
cui avidità di denaro era pari alla vanagloria di Camillo Benso conte di Cavour
e re Vittorio Emanuele II. Ne fece le spese anche il Regno delle due Sicilie,
che era la preda più grossa su cui quella banda di banditi, ora nominati per
nome e cognome, potessero mettere le mani. Marcello d’Orta scrive: << Alla vigilia dell’Unità d’Italia,
circolavano nella penisola 667 milioni di ducati, così divisi: 22 in Lombardia,
nel Parmense, nel Modenese e a Venezia, 85 in Toscana, 90 negli Stati
Pontifici, 27 nel Regno sardo-piemontese, e 443 nel Regno delle Due Sicilie.
Dopo l’impresa di Garibaldi, la quasi totalità della ricchezza “napoletana”
andò al Piemonte, e Camillo Benso conte di Cavour potè saldare i suoi enormi
debiti con i Rothschild. Il Regno borbonico fu depredato di quasi tutte le sue
sostanze (il Banco di Napoli aveva una riserva aurea superiore di quasi quattro
volte a quelle di tutte le altre banche italiane messe insieme) >> 39
.
Nel
1860 tanto per Cavour quanto per Vittorio Emanuele II era dunque questione di
vita o di morte impadronirsi dell’oro borbonico. Per evitare che la situazione
degenerasse in un conflitto internazionale l’intera operazione sarebbe stata
gestita dal Grande Oriente d’Italia. Proprio per questo Enrico Nassi definisce
la spedizione dei Mille come la <<
“prima grande interferenza profana” di una lobby massonica nella storia
d’Italia, ideata e gestita nel segreto del tempio >> 40 .
Questo storico della massoneria, già più volte citato nel nostro lavoro, cerca
di ricostruire sulla base dei << si racconta >> e di <<
un’esigua manciata di documenti >> il ruolo avuto dal Grande Oriente
d’Italia nell’avventura garibaldina depurandola dalle scorie di una distorta storiografia,
che fu immediatamente fabbricata dalle élite al potere come mito
autocelebrativo. Scrive Nassi che l’azione del GOI << si è snodata lungo quattro direttive:
-
la mediazione dei contrasti
ideologici, risolta con l’emarginazione politica e militare dell’ala più
intransigente, repubblicana e anticlericale […] Alla riuscita dell’operazione
contribuì la cooptazione nel vertice massonico di alcuni mazziniani iniziati
durante l’esilio a Londra e degli uomini più in vista nella “Società nazionale”
di Daniele Manin, disposti a schierarsi con casa Savoia purché facesse sua la
causa italiana […] non indifferente, infine, l’appoggio dei quadri più dinamici
della borghesia imprenditoriale, che in un mercato interno senza frontiere
vedevano la maggior occasione di sviluppo e di allineamento dell’Italia allo
standard dei paesi più avanzati d’Europa;
-
la raccolta dei << mattoni
>>, realizzata con significative (ma scarse) offerte volontarie e
alimentata nel tempo da un buon flusso di finanziamenti bancari e di beni e
servizi da parte delle maggiori industrie cotoniere lombardo-piemontesi, dei
costruttori di strade e ferrovie e di fabbricanti d’armi. Questo è stato il
lavoro più facile, giacché a favorirlo, oltre alla passione civile che legava i
quadri massonici e quelli della classe dirigente, c’era il governo,
ufficialmente contrario all’impresa, ma largo di promesse sul piano delle
forniture e delle commesse statali. Mancavano le navi, ma l’armatore Raffaele
Rubattino, << patriota genovese iniziato all’Arte Reale >>,
provvide a fornire il Piemonte e il Lombardo, le due navi più veloci di quelle
avute in concessione dal governo;
-
un’azione diplomatica parallela a
quella del governo per stabilizzare l’adesione francese. Ma in particolare per
evitare contraccolpi sul versante inglese; e questo è un altro colpo andato a
segno come dimostra l’atteggiamento assunto dalla flotta della regina Vittoria
nel momento più cruciale dell’impresa garibaldina […]
-
una costante pressione sullo stato
maggiore dei Mille, quasi al completo di obbedienza massonica, per impedire che
Garibaldi, galvanizzato dal successo dell’impresa, mettesse il governo di
fronte al fatto compiuto di una marcia su Roma. Questa deve essere stata la
mediazione più difficile […] >> 41.
A
proposito della posizione britannica nei confronti della spedizione dei Mille
Nassi cita l’aneddoto della Royal Navy, postasi a schermo tra i garibaldini che
stavano sbarcando a Marsala e la flotta borbonica: quest’ultima avrebbe potuto
spazzare via gli invasori con poche cannonate, ponendo immediatamente fine
all’avventura di Garibaldi ma fu trattenuta, al momento decisivo, dal timore di
provocare un grave incidente diplomatico con la Gran Bretagna. Ma si trattava
di ordini provenienti dal Governo inglese o da una qualche realtà di potere
occulta con sede in Gran Bretagna? Secondo Aldo Mola << la spedizione dei Mille si svolse dall’inizio alla fine sotto
tutela britannica o, se si preferisce, della massoneria inglese >> 42
. Le prove parrebbe averle trovate Giulio Vita, che afferma: << studi in archivi e su periodici di
Edimburgo mi hanno permesso di rilevare e confermare il versamento a Garibaldi
di una somma veramente ingente, durante la sua breve permanenza a Genova, prima
che la spedizione sciogliesse le ancore. La somma riferita con precisione è di
tre milioni di franchi francesi. Questo capitale, tuttavia, non venne fornito a
Garibaldi in moneta francese, bensì in piastre d’oro turche >> 43
. Ecco quindi come fu possibile al Grande Oriente d’Italia di integrare
le magre offerte dei “fratelli”, i << mattoni >> di cui ci parlava
il Nassi.
L’intera
spedizione dei Mille si risolse così in una colossale farsa, proprio come si
rivelerà in seguito la Terza guerra d’indipendenza. Impressionante è la
testimonianza del cronista di parte borbonica Giacinto De Silvio (1814-1867),
che denunciava << la trama di
imbrogli e corruzioni con cui inglesi e piemontesi si comprarono tutto il
governo di Ferdinando II, compreso il primo ministro Liborio Romano e larga
parte degli stati maggiori militari e della burocrazia, che di fatto
disarmarono un esercito e una marina tra le più potenti della penisola di
fronte a mille volontari disomogenei e male armati >> 44 .
Tra questi vi era il capitano di fregata Guglielmo Acton, che a Marsala nel 1860,
come ufficiale borbonico, si rifiutò di sparare sui garibaldini e poi cambiò
bandiera, partecipando al cannoneggiamento nel 1861 dell’ultima roccaforte dei
Borboni: Gaeta. Acton farà poi una brillante carriera nella Regia Marina, che
avrà il suo fiore all’occhiello nella vergognosa sconfitta di Lissa. Che dire poi
di quel generale Landi che a Calatafini avrebbe potuto spazzare via in cinque
minuti i garibaldini, ma che inspiegabilmente ordinò la ritirata? << Si scoprì in seguito che il
generale Landi aveva già in tasca una fede di credito, cioè un assegno con cui
qualcuno aveva, come dire, “agevolato” il suo passaggio alla causa dell’unità
d’Italia. L’ininterrotta catena di successi di Garibaldi si spiega anche così.
A differenza dei sottufficiali e dei soldati di Francesco II, lo stato maggiore
dell’esercito borbonico con poche eccezioni si era già fatto corrompere prima
dell’arrivo dei volontari garibaldini. Emissari piemontesi hanno da tempo
preparato il terreno allo sbarco in Sicilia avvicinando ufficiali e funzionari
borbonici. Hanno loro offerto promozioni nel futuro stato sabaudo e ingenti
ricompense in piastre turche, una valuta all’epoca facilmente convertibile e
usata in tutti i porti del Mediterraneo >> 45 .
Il
saggista Lorenzo Del Boca precisa che la piastra turca era la moneta
commerciale di allora, ma era anche la <<
moneta delle tangenti, perché impediva di indicare da dove venivano questi
soldi e quindi quale malaffare c’era dietro >> 46 .
Una
volta conseguita l’unità politica della Penisola, la già ricordata Loggia
Ausonia di Torino dovette accelerare i tempi per condurre a unità anche le
varie frange della massoneria italiana. A questo punto, pur calibrando
attentamente le parole, Nassi rivela un aspetto di grande importanza per
comprendere la differenza tra la massoneria nostrana e quella dei Paesi
anglo-sassoni: << Quello che
mancava all’Ausonia era un contesto esoterico proprio dell’Arte Reale, benché
nelle Logge fossero d’obbligo la gestualità e il linguaggio, l’abbigliamento,
gli strumenti e i gioielli rituali importanti da Parigi e da Londra. Oppure
reinventati sull’onda della memoria e di una manualistica mal tradotta e
comunque troppo ermetica: cioè un cocktail di modelli di cui nessuno, o quasi,
conosceva il valore e il significato simbolico. Di conseguenza la ritualità
aveva una sola funzione pratica: quella che gli psicologi indicano come
un’esclusiva forma di assoggettamento del neofita, tanto più forte e vincolante
quanto più intenso è il mistero esoterico della cerimonia d’iniziazione e della
successiva obbedienza >> 48 . Da qui il timore degli
spiriti più inquieti che gli interessi profani finissero per prevalere
all’interno del Tempio, come poi sarà.
Un
altro problema sul tavolo era la ricerca di una figura autorevole a cui
affidare le redini del Grande Oriente d’Italia e per mezzo del quale
identificare, in modo ancora più forte, massoneria e Risorgimento. Serviva un
testimonial, come diremmo oggi, e perciò fu fatto un casting. Il primo
candidato ad essere scartato fu Garibaldi, che malgrado la fresca promozione al
33° grado era considerato imprevedibile e ingovernabile. Il “fratello in
pectore” Cavour, ormai vecchio e malato, declinò l’invito , sostenendo
piuttosto la candidatura di Costantino Nigra. La sua gran maestranza durò poco
e gli successe il siciliano Filippo Cordoba. Vero e proprio tecnocrate nel
senso descritto da Saint-Yves d’Alveydre, Cordoba viene descritto dal Nassi
come un recordman << per
l’incredibile quantità di cariche e di strutture operative che gestiva in
contemporanea, dominando una piramide di potere politico-amministrativo di
proporzioni gigantesche >> 49 .
Poiché
al peggio non c’è mai fine, a Cordoba succederà Adriano Lemmi che merita una
trattazione separata.
Note
1.
1. I passi dell’opera di De Marco, Revisione della Storia dell’Unità d’Italia di seguito citati sono stati consultati su http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Personaggi/Cavour01.htm in data 30/07/205.
2. Ibidem
3. L’espressione “personale straniero di rinforzo” qui utilizzata è stata presa in prestito da Solange Manfredi, autrice del libro Psyops.
4. De Marco, op. cit.
5. Ibidem
6. E. Nassi, La massoneria in Italia, Newton, Roma 1994, p. 25
7. De Marco, op. cit.
8. Ibidem.
9. Ibidem.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ibidem.
14. Ibidem.
15. Ibidem.
16. Ibidem.
17. Ibidem.
18. Ibidem.
19. Ibidem.
20. E. Cernuschi, Battaglie sconosciute. Storia riveduta e corretta della Regia Marina durante la Grande Guerra, In edibus, 2014, pp. 146-147
21. De Marco, op. cit.
22. A. Petacco, O Roma o morte. 1860-1870: la tormentata conquista dell’unità d’Italia, Mondadori, 2010.
23. Ibidem, p. 92-93.
24. Ibidem, p. 91
25. Ivi.
26. M. Pizzuti, Rivelazioni non autorizzate. Il sentiero occulto del potere, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2013, p. 87.
27. A. Petacco, op. cit. , p. 94.
28. Ibidem, p. 102.
29. Ivi.
30. E. Cernuschi, Battaglie sconosciute. Storia riveduta e corretta della Regia Marina durante la Grande guerra, In edibus, pp. 20-21.
31. A. Petacco, op. cit. , pp. 131-134
32. E. Nassi, op. cit. , pp. 25-26.
33. M. Pizzuti, Rivelazioni non autorizzate. Il sentiero occulto del potere, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2013, pp. 79-80
34. Ibidem, p. 80. Il riferimento ad Acacia Massonica si trova a p. 81 del numero febbraio / marzo 1949.
35. Ibidem, p. 83.
36. In realtà qui Pizzuti sembra fare confusione tra le idee gnostiche di quel mondo alchemico e magico da cui è figliata la massoneria e il vero e proprio culto gnostico che accomuna i vari elementi della Contro-Chiesa.
37. M. Pizzuti, op. cit. , p. 83
38. Epiphanius, Massoneria e sette segrete. La faccia occulta della storia, Fondazione Testimonium, pp. 177 e sg.
39. M. Pizzuti, op. cit. p. 83
40. E. Nassi, op. cit. , p. 28.
41. Ibidem, pp. 30-31.
42. Citato in M. Pizzuti, op. cit. , p. 81
43. Ivi.
44. Ibidem, pp. 83-84
45. Ibidem, p. 85.
46. Ibidem, p. 86.
47. Ivi.
48. E. Nassi, op. cit. , p. 33.
49. Ibidem, p. 35
L'ARTICOLO CHE AVETE LETTO PROVIENE DAL SAGGIO MUSSOLINI E GLI "ILLUMINATI" DI ENRICO MONTERMINI.
L'ARTICOLO CHE AVETE LETTO PROVIENE DAL SAGGIO MUSSOLINI E GLI "ILLUMINATI" DI ENRICO MONTERMINI.
L'OPERA E' DEPOSITATA PRESSO LA SIAE ED E' TUTELATA DALLE NORME A DIFESA DEL DIRITTO D'AUTORE.
Iscriviti a:
Post (Atom)